Orgogli nazionali. Nell’anno in cui l’Unità d’Italia accende l’entusiasmo e la retorica per gli ingegni e le virtù patrie, accade che anche il Compasso d’Oro si tinga di un’enfasi celebrativa più emotiva e iperbolica dell’usuale. Complice un trasferimento temporaneo del premio da Roma a Milano, in concomitanza con la mostra “Unicità d’Italia”, e la volontà istituzionale di allargare la consapevolezza sul valore, concreto e simbolico, del patrimonio della collezione nella definizione della nostra identità collettiva.
150 anni dell’Unità d’Italia e il Compasso d’Oro. Ma neanche l’eccezionalità della doppia ricorrenza – il Compasso si tiene a cadenza triennale – riesce a smantellare quell’attitudine alla discrezione da sempre incarnata dal premio. Che rimane una delle massime espressioni dei nostri valori borghesi, così come la sua storia ci suggerisce: fu Giò Ponti, insuperabile maestro del design italiano, a ispirarne la nascita nel 1954, concretizzando il desiderio di rinnovamento di una classe di progettisti e imprenditori che, proprio in quei primi anni di crescita economica, iniziavano a trovare una propria, efficace sinergia.
E sebbene i tempi siano cambiati, soprattutto a fronte di un decennio che, passando per l’enfasi accordata alle archistar, ha contagiato il mondo della progettazione con le manie e le piccole vanità di tante piccole designstar, ci piace pensare che il Compasso abbia saputo mantenere una distanza dalle mode e dall’autocelebrazione degli ultimi arrivati, riconfermando quel senso di understatement che rimane il gene più solido del suo Dna.
Non a caso, a prevalere anche in questa XXII edizione del concorso è stato un decantato “rigore del poco”, sia nei 19 oggetti premiati che nello stile dei protagonisti: una sobrietà testimoniata anche dall’habitus di designer e imprenditori, accomunati in questo caso da poche parole e un abbigliamento anti-glamour, capace di comunicare, a dispetto dell’evidente valore al merito di ogni vincitore, la capacità di condividere un orizzonte del presente semplice e quotidiano (ma si può dire lo stesso delle istituzioni presenti, a cominciare di Gianni Letta, più volte interrotto da applausi desiderosi di incalzare la fine del suo discorso fiume?).
Non ha fatto difetto, comunque, l’emozione vivissima dei vincitori, pur sempre consapevoli di essersi conquistati un tributo glorioso della storia del design. E questo vale per i grandi marchi italiani, ad esempio Alessi e la Fiat (premiata quest’ultima con la sua 500), per i mostri sacri dell’arredamento – Magis, Danese, Arper, Martinelli Luce – come per i numerosi designer stranieri – ad esempio Konstantin Grcic, Patrick Jouin, i fratelli Bouroullec – insieme agli italiani – tra cui Alberto Meda, Odoardo Fioravanti, i Palomba -, gli art director per la prima volta insigniti con un riconoscimento alla grafica (Zup Associati, Tassinari/Vetta), terminando con i Compassi alla Carriera attribuiti, tra gli altri, a Giotto Stoppino, Enzo Mari e Cini Boeri.
Ma di questo Compasso, oltre che degli aspetti di costume, è interessante testimoniare la capacità di saper inglobare i nuovi orizzonti applicativi della disciplina. A cominciare da un premio tributato alla ricerca, quello vinto dal Politecnico di Milano con DRM Design Research Maps, e dall’istituzione di una Targa Giovani volta a dare visibilità alle espressioni più fresche e innovative degli studenti italiani, troppo spesso oscurati nelle proprie potenzialità dall’aura sacra e irraggiungibile delle precedenti generazioni.
A futura memoria restano, inoltre, i due bei cataloghi pubblicati da Corraini.
Pubblicato su Artribune.com il 26 luglio 2011