Caroline Naphegyi ci racconta le sfide di una visione che ha permesso di ripensare il format delle Capitali del Design come un processo di prototipazione in divenire. E che fa di Lille Métropole 2020, Capitale Mondiale du Design, un esperimento collettivo di azione sul territorio.
Un’edizione del Word Design Capital non più intesa come una vetrina, ma come un dispositivo di rilancio del territorio attraverso il design. È con questo obiettivo che Lille Métropole 2020, Capitale Mondiale du Design ha fatto dei POC – alias il Proof of Concept, prova di fattibilità di un’idea, una soluzione o un metodo – lo strumento per rilanciare un design al servizio del territorio e della collettività. Ce ne parla Caroline Naphegyi, Direttrice dei Programmi di Lille Capitale Mondiale du Design.
I progetti in mostra sono il risultato di un processo molto lungo.
La Métropole di Lille ha lanciato nel 2012 un’associazione che si chiama Lille Design e che ha la missione di favorire l’utilizzo del design come leva di sviluppo economico. Io ho preso la direzione di Lille Design nel 2013 e fino al 2017 abbiamo cercato di coinvolgere tutti i cluster dell’economia del territorio – l’immagine, le nuove tecnologie, il tessile, i nuovi materiali – lavorando a stretto contatto con i principali agenti economici. Solo che, come lei sa, la percezione del design in Francia è strettamente legata alle arti decorative, e meno ancorata nella vita quotidiana. Un caso che ci riguarda sul nostro territorio è quello di Decathlon: nato come marchio della distribuzione, oggi ha un team di 250 designer. Un esempio, questo, che ci fa capire come il design sia realmente dappertutto, e come la sua integrazione nella filiera possa portare valore all’intero ecosistema. Queste considerazioni sono state alla base della nostra candidatura, che non ha dunque mirato ad organizzare una manifestazione culturale, quanto a mettere in piedi una rampa di lancio per integrare il design nell’area metropolitana di Lille.
Come si è tradotta in pratica questa visione?
Abbiamo creato un’agenzia – La Republique du Design, ispirata a “La République des Arts” di Jacques Viénot, tra i fondatori del WDO – e abbiamo lanciato un appello a progetto, mobilizzando l’insieme delle aziende e delle istituzioni del territorio e orchestrando dei metodi per far sì che le iniziative potessero essere accompagnate dall’intervento progettuale dei designer. Quindi abbiamo cercato di strutturare la filiera del design a livello locale, mettendo in piedi un ecosistema innovante i cui primi risultati sono visibili nelle Maison POC, dove mettiamo in mostra 250 tra i 600 progetti sviluppati in quest’arco di tempo.
Avete definito i vostri 500 POC (Proof of Concepts, prove di fattibilità) come dei “punti di agopuntura del design”. Da dove arriva l’idea di usare uno strumento che in genere resta confinato tra gli adepti del design thinking o del design dei servizi?
Lanciando il nostro appello a progetto abbiamo constatato che la parola design è totalmente incompresa da molti attori della catena del valore, che lo associano ad un’equazione tra investimenti e ricadute sul breve periodo. Al contrario nel linguaggio dell’impresa e dell’innovazione il Proof of Concept è un termine familiare. Il POC, nella scrittura della candidatura, era una maniera di inventare un nuovo linguaggio che sarebbe stato quello della Capitale Mondiale: se vuoi partecipare alla capitale mondiale, devi fare un POC. Non sai che cos’è? Siamo qui per spiegartelo. Per questo siamo andati sul territorio – inclusi i villaggi, perché questo è un territorio agricolo – per mostrare questo approccio e spiegare come svilupparne uno. È dall’esperienza diretta dello sviluppo di un POC che tante persone si sono avvicinate alla cultura del design. Una missione di acculturazione nei due sensi: quella di chi conduce il progetto, e quella chi lo riceve come utilizzatore finale.
Cosa succederà di questi POC alla fine della manifestazione?
Questo è un tema centrale: siamo ai primi germogli, dobbiamo continuare a democratizzare questa visione dei POC e del design. Durante questo autunno intorno ad ogni Maison POC sarà possibile approfondire le tematiche specifiche e incontrare degli esperti. Quindi ci saranno i POC Awards, che avranno luogo il 24 ottobre: guidata dal Presidente Luisa Bocchietto, la giuria dovrà spiegare, come per i César, perché questo POC è importante per il territorio. L’obiettivo è quello di evidenziare 21 case studies che ci portino poi a scrivere, insieme al WDO, il Libro Bianco della trasformazione del territorio attraverso il design, in modo che l’esperienza possa continuare dopo il 2020.
Lo spirito della coprogettazione anima Lille Capitale Mondiale du Design. A suo avviso c’è un rischio populista nel dare un potere decisionale ad utenti senza consapevolezza progettuale?
Abbiamo sempre detto che non ci sono dei POC senza designer e che le metodologie che mettiamo in campo non sono lì per sostituirsi alla competenza del designer. L’obiettivo era quello di promuovere un management del design che si rivolge a tutti, legato al quotidiano, ma sempre accompagnato da una pratica di design fatta a livello professionale.
Immaginiamola agopuntrice del design. Quale punto nevralgico riterrebbe opportuno stimolare?
È interessante l’immagine dell’agopuntura perché quando si posiziona un ago da qualche parte, si mette in realtà in connessione tutto il sistema. Per me i componenti sono molteplici: la politica, lo statuto dei designer, che in Francia fa ancora capo alla Maison des Artistes, le scuole – e qui a Lille sarebbe molto interessante creare una scuola di POC – le imprese e i cittadini, perché è per loro che abbiamo fatto questo progetto. È importante non isolare questi obiettivi, la visione del design è globale. Ho risposto alla sua domanda o avrebbe voluto un unico punto?
Mi conceda di riformulare: c’è un punto più strategico degli altri?
La promozione del design ha bisogno di elementi tangibili: quello che manca oggi nel nostro ecosistema è un luogo dove le cose si possano incarnare. Per questo, il punto di agopuntura potrebbe essere quello di dare vita ad un luogo ibrido tra scuola, luogo di esposizione, un punto di ritrovo per designer, un materioteca. Perché gli effetti di Lille Capitale du Design restino ci vuole un luogo duraturo e capace di inventarsi: non si può trattare di una scuola o un museo, perché il mondo sta cambiando e il dispositivo deve essere agile e collettivo, favorendo una dinamica di connessioni in interazione con i territori.
Pubblicato su Domusweb il 1 ottobre 2020