“Esperimenti no-gender e no-size, uniformi contemporanee che guardano alla massima libertà di movimento ed interpretazione. E fanno un punto imprescindibile della necessità di lanciare una riflessione aperta, un meticciato a lieto fine tra campi del design.”
In un paese come Israele, che convive da sempre con la presenza di netti confini politici e identitari, la vera avanguardia si prende il lusso di scavalcarli. Usando l’improvvisazione come arma di riscatto per superare barriere, il duo israeliano Muslin Brothers – al secolo Tamar Levit e Yaen Levi – parte dalla moda per esplorare una più ampia ricerca antropologica e progettuale attraverso incursioni tra installazioni, performance e visual design, senza il bisogno di etichette.
È a Tel Aviv, città capace di fondere la propria appartenenza al Mediterraneo con un’elettrica, contagiosa frenesia, che questo collettivo viene fondato nel 2011. La scelta del nome è già la prima rivoluzione: la garza di cotone – la mussola, appunto, muslin in inglese – è un materiale originario della Mezzaluna Fertile da sempre usato per la confezione dei campioni dei vestiti e rappresenta, in questo caso, una tendenza alla prototipazione, un’apertura a idee e soluzioni impreviste. «Penso che tutto sia iniziato da Tel Aviv e dal Medio Oriente: qui tutto è spontaneo, pur nelle cattive declinazioni, visto che tutto appare spesso precario e transitorio», racconta Tamar Levit. Ogni abito, quindi, racchiude una congiuntura alchemica: la progettualità dei Muslin Brothers prende le distanze dal disegno come punto di partenza, e guarda alla libertà di chi indossa come a una complicità da definire ogni volta specifica.
Succede allora – ecco qui la seconda rivoluzione – che le loro collezioni rifiutino i codici binari della moda maschile e femminile e prediligano la scelta di abiti no gender e no size, con linee e volumi definiti da uno taglio grafico, lontano da ogni decoro superfluo. «I nostri vestiti non hanno taglie, sono un mix di movimento, forme, dettagli e colori», continua Tamar Levit. «Proviamo gli abiti, ci muoviamo con loro addosso per effettuare dei veri e propri “test drive” per le strade della città, così da poter osservare come reagiscano le persone». L’esito di questi esami fino allo scorso anno è confluito nella produzione di due canoniche collezioni annuali, mentre oggi, invece, si confronta – ed eccoci alla terza rivoluzione – con più forme dʼarte. Ad esempio, con la performance, come accade per Blue 6×6, in collaborazione con il coreografo Ofir Yudelevitch, e per The 3 Sheets, progetto condiviso con Ariel Cohen; ci sono poi installazioni come Totem, ricerca visiva su ordine e disordine in collaborazione con il grafico Zohar Koren, e nuovi spazi urbani, come Human Graffiti, progetto di interazione multidisciplinare realizzato tra Tel Aviv, Londra, Praga e Venezia. Occasioni, queste, per identificare ed amplificare un’idea mettendola sotto una lente di ingrandimento, e per sottolineare che la moda è «uno strumento per sviluppare una narrativa, fare una domanda, a volte per provocare», raccontano i due fondatori.
Per la Jerusalem Design Week 2017, l’installazione I’m Feeling Lucky indagava uno dei temi più ricorrenti nella loro produzione: l’uniforme, intesa sia come l’abito attraverso il quale si costruisce lʼidentità, sia come l’uniforme militare e l’abito da lavoro che hanno definito l’immaginario di Israele. In un deserto artificiale illuminato da una luce fluorescente, il giubbotto militare M65, reso tristemente celebre dalla guerra in Vietnam, veniva declinato in 80 capi che i visitatori potevano provare per qualche minuto. Così, si era parte dellʼopera e al tempo stesso questo genere di indumento perdeva la sua connotazione politica e sociale.
Oggi, il duo si è spostato tra Olanda e Belgio, dove ha scelto, senza mettere da parte il proprio marchio commerciale, di consacrarsi a una ricerca che ruota attorno ai temi dell’uniforme e dell’essenzialità. delle cose, di cui ognuno di noi ha bisogno. «È tempo di interrogarsi su quanti vestiti dobbiamo produrre, su cosa succeda ai vestiti che non vendiamo e ai materiali che non usiamo, su quante versioni di uno stesso capo siamo costretti a realizzare per completare una collezione, su come possiamo fare per avere più controllo su quello che produciamo, e qual è il processo che ci permette di farlo al meglio. L’ultimo, e radicale, atto di trasformazione, la rivoluzione che permette di esplorare confini in continuo rinnovamento, dando forma a progetti e ideali di vestibilità ancora da identificare.
Publicato sul numero di aprile 2019 di Icon Design e su Icondesign.it