Se Amazon fa pure i mobili

Una probabile rivoluzione sta prendendo forma nel mondo del mobile. Soprattutto da quando Amazon si è affacciata a questo settore del mercato.

Nel 1995 il pubblicitario e semiologo francese Jean-Marie Floch scrisse un saggio destinato a segnare la storia del marketing dell’industria del mobile. In poche pagine riuscì in un’impresa fino ad allora intentata: delineare l’ideologia di consumo che si celava dietro l’identikit dell’acquirente medio di due grandi aziende europee del mobile, Ikea, all’epoca non ancora il colosso egemonico che conosciamo adesso, e Habitat, marchio di arredo inglese affermato in moltissimi Paesi, tra cui la Francia. I mobili da “good design” dell’azienda svedese rappresentavano ai suoi occhi la scelta di chi “si imbarca nella vita”: la “valorizzazione critica” che iscrivevano, diceva Floch, incarnava l’opzione sottomessa all’interesse e al calcolo di chi si si trovava, giovane e squattrinato, a optare per quegli arredi basici, strettamente utilitari e destinati a incastrarsi in piccoli spazi. Nella sua “valorizzazione pratica”, Habitat rispondeva invece alle esigenze delle giovani famiglie, economicamente più solide e alla ricerca di mobili funzionali e robusti che potessero durare negli anni, sopravvivendo alle sollecitazioni spesso scalmanate e disattente della ancor più giovane prole.
A distanza di oltre vent’anni, fa sorridere ritrovare la stessa dicotomia, solo leggermente aggiornata ai nuovi profili sociologici oggi in voga, nel lancio di un’azienda talmente rilevante da raccontarci, volente o nolente, qualcosa circa l’andamento del mondo. È infatti nientemeno che Amazon ‒ la più grande Internet company del mondo – ad aver lanciato qualche mese fa sul mercato americano i suoi primi due brand nel settore del mobile, Rivet e Stone&Beam. Il suo ingresso ufficiale nel mondo dell’arredo può sembrare marginale rispetto ad altri progetti appena inaugurati dall’azienda di Seattle (si pensi a Whole Foods o Treasure Trucks), che sembrano rendere sempre più tangibile la sua aspirazione all’oligarchia distributiva. Eppure l’impatto di questi due nuovi competitor ha già avuto il tempo di rivelarsi tellurico, se è vero che, come hanno riportato diverse testate giornalistiche, già a partire dal mese di novembre alcuni negozi online hanno registrato una contrazione del fatturato dal 4 al 6%: quanto basta, molto spesso, per limare gli utili e mettere in difficoltà l’interna sostenibilità economica.

LE PROPOSTE
Ma guardiamone l’offerta. Rivet è una collezione dedicata ai millennials: ispirata, come si legge nero su bianco sullo stesso sito, allo stile Mid-Century, di cui riprende l’estetica depurandola di ogni connotazione specifica degli Anni Sessanta, propone mobili capaci di affermarsi come “small space solutions”. Dalle lampade – industriali: ancora un genere da millennials? – fino alla “wall art” (forse necessaria per stemperare l’anonimato grazie a qualcosa che, anche in virtù della sua serialità, finisce per rivelarsi altrettanto anonimo), la proposta di Rivet è pensata per tutta la zona giorno pur non potendo vantare – almeno per il momento – una grande ampiezza di catalogo. Colori neutri, tarati intorno al blu, al beige e al grigio, sembrano evitare qualsiasi guizzo di personalità, tanto dei consumatori che dei designer che, anonimi pure loro, hanno lavorato in chissà quale sconosciuto dietro le quinte. A emergere, allora, è soprattutto la ricerca di un denominatore il più ampio possibile, così da intercettare una base di consumatori numericamente consistente, quanto basta a giocare sui costi di produzione in modo tale da garantire prezzi più bassi rispetto agli altri competitor. E poi, naturalmente, c’è il valore del servizio: la consegna gratuita (per chi ha sottoscritto Prime), nonché per la possibilità di recesso – sempre gratuita – fino a trenta giorni dalla consegna.
Il “value for money” di Rivet si contrappone invece alla solidità e a quel gusto classico contemporaneo che propone Stone & Beam: sempre sobrissimi, questi “noticeable neutrals” si caratterizzano per una trasversalità ancora maggiore – trattasi forse del classico divano senza infamia e senza lode, virtualmente per tutti? – e per una solidità certificata da una garanzia fino a tre anni. L’equivalente di Habitat, Floch docet, ai tempi del tardo capitalismo e della competizione dell’e-commerce.

LA PRODUZIONE
Chi produce, infatti, i mobili di Amazon? Non lo sappiamo, ne è forse troppo importante, se con la nostra immaginazione riusciamo a identificare dei fornitori – anonimi pure loro – dispersi in chissà quale angolo del mondo. Niente a che vedere, allora, con il classico profilo della PMI anche italiana, quella che, pur giocando con i piccoli numeri, fa un vanto di non esternalizzare e produrre con il proprio marchio, esaltando il savoir faire dei propri artigiani e un’originalità fatta di designer di grido e di tendenze più o meno espressive che riesce a intercettare prima degli altri. Un Davide contro Golia? Apparentemente sì, se pensiamo al vantaggio competitivo della grande distribuzione ormai divenuta globale. Con qualche margine di riuscita strategica, però, se pensiamo che l’esistenza di nicchie di consumatori differenziate e sofisticate, la cui ragione di acquisto non è troppo influenzata dal prezzo quanto da un afflato emotivo, può essere più che sufficiente ad animare un business ad alto tasso di personalità. Meno, invece, per un prodotto meno differenziato e qualitativo. E così il quadro che ne emerge è, ancora una volta, un’immagine fedele della nostra attualità: una classe media schiacciata tra i due estremi, polarizzati tra consumatori di base da un lato e ricchi ed eccentrici acquirenti dall’altro, e una forbice tra i due che si allarga sempre di più.

Pubblicato su Artribune Magazine #41 e Artribune.com il 25 gennaio 2018