Fondazione Volume!, Roma – fino al 4 marzo 2016. Disciplina antropologica e cultura del progetto entrano in dialogo nella poetica multidisciplinare del designer fiorentino. Che dice la sua in merito alle future evoluzioni della progettualità.
Per la sua prima personale romana, il designer – e insieme architetto, ricercatore e critico, fondatore negli Anni Sessanta del collettivo Archizoom – Andrea Branzi (Firenze, 1938) allestisce un’installazione site specific che legge le tracce, il più delle volte colpevolmente inascoltate, della pulsione antropologica soggiacente alla cultura del progetto. In mostra, una serie di teschi rievoca storie e presenze di anime scomparse, mentre la colonna sonora di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin – primo brano della storia della musica a simulare un orgasmo maschile – ci riporta con la sua spinta vitalistica all’insopprimibile continuità del ciclo vita-morte.
Abbiamo approfittato dell’occasione per porre qualche domanda al grande designer, con uno sguardo alla mostra di Roma e un altro all’imminente XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano e ai grandi moti che animano e fanno mutare il design del ventunesimo secolo.
Anime è il titolo della mostra che ha inaugurato a Roma presso la Fondazione Volume!. Com’è nata l’idea di declinare questo tema attraverso un’installazione?
Il riferimento è stato quello della tradizione “animista”, che è una delle radici del design italiano.
In che modo, per esprimere la sua idea di anima, è stato necessario superare la stretta dimensione dell’arredamento?
Un tempo l’ambiente umano era uno spazio abitato dai Lari, divinità che proteggevano i focolari domestici, e dai Penati, spiriti dei propri avi; un ambiente antropomorfo e zoomorfo.
Lei è membro del comitato scientifico della XXI Triennale. Ci può anticipare cosa vedremo tra qualche mese in questa nuova, grande Esposizione?
Nel XXI secolo lo scenario complessivo della società e della cultura del progetto è profondamente cambiato. Il problema non è più quello di immaginare il Futuro, ma quello di indagare il Presente.
Design after Design: l’impressione è che l’Esposizione ci racconti un progetto contemporaneo che, nella sua eterogeneità, non possa o non voglia definirsi se non attraverso una sommatoria delle sue parti.
Il sottotitolo Design After Design indica un design meno ottimista e in grado di affrontare i grandi temi antropologici, le proprie origini primordiali, il tema della vita, della morte, dell’eros, il sacro. Un design che sta diventando una “professione di massa” dentro una società multi-etnica.
Vent’anni fa ha scritto che “il consumismo è l’unica forza di trasformazione esistente”. Crede sia cambiato qualcosa nell’arco di due decadi?
Le attuali migrazioni di massa sono anche la testimonianza che l’attrazione verso il benessere dell’Occidente è in grado di spostare grandi masse di popolazione. Il consumo di beni materiali e immateriali ha trasformato i mercati; la globalizzazione però non ha omologato né gli individui né le coscienze. La Guerra Religiosa in corso dimostra che esiste una grande resistenza a ogni forma di integrazione.
Le manca mai quell’“ottimismo elegante, razionale e geometrico” proprio del modernismo che ha rievocato Emilia Giorgi? Un modernismo, peraltro, che lei più di altri ha contribuito a mettere in discussione.
Quel tipo di modernità non mi è mai mancata, anche perché non l’ho mai praticata…
È la sua prima personale a Roma. Quale anima le piace leggere e trovare in questa città?
Amo la classicità pagana e spero di trovarla.
Tornando al design, quale forma di progetto ha per lei una valenza orgasmica, un’idea di puro godimento? E cosa associa invece a un’idea di necrosi?
Indagare le origini primordiali del progetto; evitare la pura eleganza funzionale.
Pubblicato su Artribune.com il 9 febbraio 2016