Tavola italiana in liquidazione. Orfana di giardiniere barocche, decorazioni a punta d’agata e servizi per il caffè dal tocco streamline. La campana a morto per l’eccellenza made in Italy della porcellana artistica, Richard Ginori, l’ha suonata all’inizio dell’anno il Tribunale di Firenze, dichiarando la chiusura della più vecchia azienda del proprio tessuto produttivo locale.
Imputati sul banco del fallimento, due indiziati dai contorni sfuggenti: una crisi economica globale, che ha aggredito la domanda pur senza strangolarla completamente, e una gestione finanziaria opaca, caratterizzata da numerosi passaggi societari mai veramente interessati al riscatto del gruppo industriale.
Il funerale, dunque, non è solo per i circa 300 impiegati della manifattura di Doccia, ma anche per i 270 anni di storia che hanno incarnato un connubio unico fra arte e design. Fondata nel 1785 – prima della Rivoluzione Francese, se la coincidenza temporale vi fa effetto -, Richard Ginori vanta un archivio storico sedimentatosi negli anni grazie al lavoro di art director illustri come Gio Ponti e Paola Navone, passando per le collaborazioni con Achille Castiglioni, Angelo Mangiarotti, Enzo Mari, Aldo Rossi.
Anche le situazioni più disperate, però, trovano a volte una luce in fondo al tunnel. Gucci, fiore all’occhiello della moda fiorentina controllata dalla holding Kering di François Pinault (quello di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana a Venezia, sì), ha messo sul piatto – è il caso di dirlo – 13 milioni di euro per l’acquisizione della Ginori. Che il morsetto degli storici mocassini si appresti a diventare la nuova decalcomania dei piatti Ginori?
Pubblicato su Artribune Magazine #13/14 e su Artribune.com il 19 luglio 2013