“Qual è la vera Maker Faire europea?”, ha chiesto Riccardo Luna dal palco della conferenza inaugurale della Maker Faire Rome a Dale Dougherty, fondatore della rivista Make e nume tutelare della rivoluzione degli artigiani digitali. “Quella di Roma!”, risponde lui, esitando un po’. I numeri – 90mila i biglietti staccati dal 3 al 5 ottobre – sembrano avergli dato ragione: chiunque si sia affacciato all’Auditorium Parco della Musica ricorderà sicuramente una partecipazione affollatissima e certamente inaspettata, purtroppo essa stessa ostacolo a una fruizione meditata delle “invenzioni” in mostra.
L’affermazione dell’appuntamento romano è senz’altro un merito che dovremmo riconoscere a tutti i soggetti coinvolti, organizzatori, istituzioni e sponsor. Tutti sinergicamente reattivi, per una volta, nell’investire in un movimento ad alto potenziale economico, lontano dalla logica delle Grandi Opere e sensibile al riscatto dei Neet (i giovani che non studiano né lavorano), e che allo stesso tempo ha bisogno di una leadership internazionale per poter trainare vendite ed export. Paradossalmente, però, è stata proprio la dimensione cosmopolita a essere lasciata in secondo piano in questa seconda edizione della Maker Faire Rome: più che la rincorsa del modello americano, forte dei propri venture capitalist, dei propri guru e del proprio primato tecnologico, la MFR14 ha lavorato per dare spazio a una specificità territoriale, quella dell’approccio italiano alla cultura dell’“homo faber” e del connubio tra manifattura e design, valorizzandone le esperienze di maggior spessore.
La sezione Artigiani Innovativi, a cura di Stefano Micelli e Monica Scanu in collaborazione con CNA e Confartigianato, ha più di altre approfondito quella che potremmo chiamare come una terza via italiana al fenomeno makers, e lo ha fatto mettendo in rete una serie di piccolissime e piccole imprese in bilico tra artigianato tradizionale e tecnologia. La mostra ha volutamente avvicinato realtà apparentemente eterogenee: le biciclette antifurto di Milano Bike, gli occhiali stampati in 3d con accessori intercambiabili di Bijouets, le chitarre antiriverbero in alluminio di Noha Guitars, le borse e gli accessori di Mymantra realizzate in Ligneah (materiale ligneo dall’elevata sostenibilità ambientale), fino al lampione autopulente di Limulux e ai droni industriali di SoLeon.
Il tutto per metterne in risalto un minimo comun denominatore: la tecnologia come vettore di un appeal ritrovato e un fatturato finalmente col segno più. E anche per raccontare, implicitamente, come questa straordinaria ondata di energia fattiva scaturisca prevalentemente da designer e architetti, interpreti sensibili della mediazione tra tecnica e cultura, e anagraficamente lontani dal mondo dei ventenni di cui così spesso si celebra il protagonismo nel campo dell’innovazione.
Fuori dai confini della mostra, questa terza via non ha smesso di offrire contributi significativi. Tra questi, alcuni riferimenti imprescindibili: Make in Italy, la grande retrospettiva sull’informatica italiana curata dallo stesso Riccardo Luna insieme a Massimo Banzi; Mondopasta, food design sperimentale secondo la visione di alcuni tra i nostri migliori giovani progettisti (come Sironi+Tacchini o Lanzavecchia+Wai); e infine Tooteko, startup nata da in seno allo Iuav di Venezia per produrre modelli tattili di monumenti con audio incorporato destinati ai disabili visivi.
“Non stiamo chiudendo la MKR14, stiamo già aprendo quella del 2015”, dice sempre Riccardo Luna in chiusura della manifestazione. Auguriamoci che la prossima possa essere ancora più in grande: con uno spazio espositivo in grado di valorizzare di più gli espositori in mostra, con un occhio di riguardo per ciò che accade in Italia, ma senza mettere nell’angolo tutto ciò che succede all’estero.
Pubblicato su Artribune.com il 12 ottobre 2014