Biennale Interieur. In Belgio, la casa che non esiste più

Una città fuori mano e una Biennale che dal 1968 si interroga con un pizzico di provocazione su come stia cambiando la sfera domestica. Fino a mettere in discussione persino l’ultimo incrollabile mito: la casa che non esiste più. Succede ogni due anni a Kortrijk.

Kortrijk, Belgio. Siamo in un angolo di Europa non lontano dai centri nevralgici dove le cose non solo accadono, ma ne anticipano altre, eppure il senso di spaesamento dato da un luogo apparentemente ai margini non tarda a farsi avvertire. Le occasioni speciali, però, servono proprio per rompere gli indugi, ed è così che la Biennale Interieur, la fiera di design che più di ogni altra ha storicamente lavorato al rilancio culturale del rapporto tra expo e fair off (il “fuori salone”, diremmo noialtri), dà in pasto ai suoi avventori un buon programma tra mostre, conferenze e progetti in concorso, per superare l’inerzia da isolamento.
Nel payoff coniato dall’ex direttore di Domus nonché direttore artistico di Matera 2019, Joseph Grima, curatore con il suo studio di architettura Space Caviar dell’edizione 2014, c’è tutto il senso del cambio di prospettiva auspicato dalla manifestazione: “The Home does not exist”, si legge nei grandi billboard per tutta la città. Un lancio che suona un po’ come un anno zero della domesticità, se la casa, quel coacervo che intreccia indissolubilmente il senso identitario della famiglia, la difesa dell’intimità come anche la rappresentazione sociale dell’io, si trova a essere annullata nelle sue stesse ragioni d’essere. Perché, continua Grima, “per la generazione nomade dei Millennials la casa e i beni che essa contiene non rappresentano più un valore come espressione di radicamento”.

Biennale Interieur 2014

Gli indici di un fenomeno in crescita? Li ritroviamo tutti nello straordinario apparato critico dispensato dal catalogo della fiera e dal volume SMQ: the Quantified Home. In primis, la crescente mobilità delle nuove generazioni, sempre più cittadini del mondo. Quindi, il riacutizzarsi della rifinanziarizzazione del mattone: si ritorna infatti, a partire da Manhattan, a comprare casa per investire capitale e non per avere un bel posto dove vivere, sia che l’acquirente sia un magnate da petroldollaro o un comune mortale convertitosi a Airbnb. E poi c’è l’onda lunga della casa finita sui social, laddove la vita domestica fotografata su Instagram e condivisa su Facebook – come Grima documenta in SMQ – si spoglia della sacralità che contraddistingue uno spazio privato per trasformarsi in palcoscenico alla ribalta degli “amici”.
Peccato, però, che più di un addetto ai lavori si sia rivelato piccato dal leitmotiv de “la casa non esiste più”. Affermare che la casa ha cessato di esistere proprio in seno a una fiera, fra trecento espositori che sono una piccola eccellenza nel comparto del mobile europeo, non assume solo il valore di una boutade? Grima e Space Caviar danno l’impressione di prendersi tutto il gusto della provocazione. Ciò nonostante, qualche ombra sulla validità teorica dell’assunto non fa fatica a insinuarsi. Non stavamo ancora vivendo gli effetti di una crisi immobiliare, con prezzi in discesa anche del 30% nel nostro Paese e non solo? E quando, sempre sul fronte della nostra vita pubblica, una disoccupazione crescente ci manda “tutti a casa”, siamo sicuri di viverci la nostra domesticità in maniera poi così sublimata? E gli architetti a dibattito sul palco dello Speakers Corner di Interieur non ci parlano forse di crescente interiorization (nel senso di vita in interni) della nostra vita? Sul fronte della virtualizzazione, poi: “Consumare il reale nei segni del reale” non rinnoverà a modo suo il protagonismo della casa nella nostra vita? Dubbi leciti, questi, sebbene sempre sfuggenti e mai esaustivi.
Cosa resta, allora, di una visita a Interieur? Sicuramente il gusto di una fiera a misura d’uomo, che valorizza il lavoro degli espositori e facilita le possibilità di relazione senza nevrosi. Sicuramente i grandi bar esito del concorso e ora allestiti tra i padiglioni, spazi temporanei belli e audaci che dimostrano l’inadeguatezza storica e gastronomica del panino con la cotoletta che ci potremmo mangiare in fiera a Milano. Sicuramente la mostra Smq: the quantified Home, allestita, si fa per dire, all’interno di un edificio scolastico abbandonato nel centro storico della città: in scena neanche un mobile, solo un percorso guidato tra le stanze e una successione di date e citazioni sull’evoluzione della sfera domestica. E infine, il gusto quasi narrativo di poter pensare e vivere un Expo come uno tutt’uno coeso, quasi si trattasse di un testo che per quanto corale e polifonico riesce a lanciare una trama univoca, rilanciando le consuetudini su cosa possa e debba essere una fiera e, allo stesso tempo, stimolando dubbi e curiosità molteplici.

Pubblicato su Artribune.com il 1 novembre 2014