Il 6 giugno il Design Museum Holon ha inaugurato la prima retrospettiva dedicata a Studio Nendo mai realizzata in un museo. La mostra, curata da Maria Cristina Didero, prende il nome di “The Space in Between” e guarda alla metafora della liminarità come filo rosso. Per leggere il rapporto tra lo spazio e sei tensioni che lo fanno vibrare e prendere forma: quella con il processo, le texture, i confini, gli oggetti, le relazioni e i sensi.
Fondato nel 2002 a Tokyo da Oki Sato (Toronto, 1977), Nendo si è affermato nel giro di un decennio come uno dei nomi più carismatici nel panorama del design mondiale anche grazie a una produzione eccezionalmente prolifica e spesso capace di rinnovare lo stupore di pubblico e addetti ai lavori grazie a un altissimo tasso di innovazione concettuale e formale. Abbiamo chiesto a Oki Sato di raccontarci qualcosa circa la sua passione per il progetto e le linee di sviluppo che animano oggi la sua ricerca.
Ernesto Rogers diceva che il progetto doveva andare dal cucchiaio alla città, mentre nel tuo caso si dice che possa andare dalla città fino alle chopsticks. Il tuo portfolio, infatti, è tra i più eterogenei e prolifici: come trovi e rinnovi la tua ispirazione?
Dal mio punto di vista non c’è differenza in termini tipologici tra gli oggetti che disegno, mi sento sempre lo stesso e comincio ogni progetto a partire da una piccola idea. Piano piano la faccio crescere: se si tratta di un oggetto di piccole dimensioni mi fermo prima, altrimenti se è più grande lo faccio crescere ancora e poi mi fermo definitivamente.
Quando ero piccolo volevo lavorare in un negozio di animali ed è forse per questo che penso alle idee come a degli animali da nutrire: incominci a dargli del cibo, loro diventano sempre più grandi e poi alla fine non hai più bisogno di dargli da mangiare. L’osservazione della vita quotidiana, poi, è quello che mi ispira maggiormente: magari il modo in cui hai appena appoggiato la penna sul tuo quaderno può diventare rilevante per sviluppare, che so, un nuovo telefono cellulare.
Allo stesso tempo, come riesci a mantenere il controllo della filiera produttiva del tuo studio? Come filtri le tue collaborazioni?
È una questione di duro lavoro, io sono un “design-addicted”, penso al design H24 e credo che questo sia l’unico modo per mantenere il controllo sui propri progetti: non c’è una scorciatoia, una strada più facile. Io sviluppo sempre la prima idea, quindi seleziono un designer nel mio team – per Studio Nendo lavorano venticinque designer – e lavoriamo in due, scambiandoci idee a vicenda.
Successivamente, controllo accuratamente il prototipo e questa è la ragione per cui devo visitare continuamente i miei clienti. Inoltre, non scelgo mai il mio progetto per il budget o per la tempistica, ma sempre sulla base delle persone coinvolte. Per me è una questione molto personale.
Se anche hai molti soldi e tempo a disposizione ma il cliente non si aspetta niente da te o non ha nessun interesse nell’esito del lavoro, non puoi arrivare ad un risultato interessante.
Ci fai qualche esempio fra i tuoi clienti?
Giulio [Cappellini, N.d.R.] is The man, he is the crazy guy che mi spinge sempre a rompere le regole, a osare. Giulio per me è come un padre, mi ha trovato dal nulla e anche se adesso ho quattrocento progetti in corso e lui mi chiama perché vuole un nuovo progetto o semplicemente una nuova idea tra una settimana, noi semplicemente lo facciamo.
Lo stesso accade con Patrizia Moroso [CEO di Moroso, N.d.R.] o con Claudio Luti [CEO di Kartell, N.d.R.].
Cosa rende speciali le aziende italiane?
Alcune di loro sono completamente matte! Ma hanno una grande passione per il design, credono che il design possa cambiare il mondo e io lo penso con loro.
Il segno che ti caratterizza è squisitamente giapponese, penso alla mostra 50 manga chairs all’ultimo Salone del Mobile, eppure hai dimostrato di sapere dialogare con culture molto distanti, ad esempio collaborando al progetto Nichetto=Nendo e con Caesarstone per la commissione relativa alla mostra al Design Museum Holon. Che senso ha per te la dimensione locale / globale? L’identità nazionale è ancora un fattore che può spiegare il design o che stimola la tua ricerca?
Io provo a non pensare alla mia nipponicità perché credo che implicitamente sia già dentro di me: se disegno una caffettiera, sotto una certa prospettiva diventerà senz’altro una caffettiera giapponese. Non voglio né allontanarmi dalla cultura giapponese né focalizzarmi solo su di essa e piuttosto che ripensare alla mia cultura e alla mia storia cerco di godermi quello che accade nel contesto che mi circonda.
Tutti gli ingredienti sono qui, su questo tavolo, e io devo solo cucinare per i miei clienti. Sì, sono come un cuoco, faccio del mio meglio e c’è sempre un ingrediente interessante, magari una verdura o una frutta che non conosco, ma che mi può essere spiegato e che tento di assorbire e trasformare in un progetto.
Tra gli oggetti in mostra, quali sono gli oggetti a cui sei più affezionato? Quali, dal tuo punto di vista, esemplificano meglio l’evoluzione del tuo lavoro?
Ribbon stool è stato il primo progetto a essere prodotto da Cappellini e questo mi riporta indietro a dei bei momenti. Anche la Cabbage chair, realizzata per Issey Miyake, è stata una grande esperienza, molto ispirante. Quindi anche la Thin Black Lines per Phillips de Pury alla Saatchi Gallery a Londra: è stato il primo progetto per una galleria, a cui ne sono poi seguiti molti altri.
Mi fa molto effetto vedere pezzi differenti riuniti insieme: non sento neanche più che mi appartengano, mi sento di nuovo un visitatore. Fra te e gli oggetti si crea una distanza che ti impone una pausa di riflessione per digerirli nuovamente.
Oltre a essere un presupposto narrativo, “the space in between” che vediamo in mostra a Holon è una metafora realistica per leggere il tuo lavoro?
Come dicevamo, in mostra ci sono circa solo un terzo dei progetti che ho fatto in passato. Abbiamo selezionato i pezzi che si adattavano al tema. Con un tema diverso avremmo sicuramente ottenuto una categorizzazione e una mostra diversa.
Ad agosto Studio Nendo avrà una nuova retrospettiva a Taipei: il tema sarà l’osservazione delle vetrine, il “window shopping”, e voglio categorizzare le vetrine in funzione dei paesi e delle aziende. Ci sarà una strada italiana, una scandinava, una giapponese: sarà una mostra completamente diversa, anche se forse solo mettendo Holon e Taipei insieme si potrebbe arrivare a una vera e propria monografica. Mi piace moltissimo categorizzare i miei pezzi e ogni volta osservare me stesso da un’altra prospettiva.
Qual è una frontiera del design con cui non ti sei ancora confrontato ma di cui ti piacerebbe occuparti in futuro?
Studio Nendo apre continuamente nuove porte, stiamo iniziando a lavorare nel campo dell’architettura – abbiamo appena finito il Siam Department Store di Bangkok – e ora abbiamo un nuovo dipartimento dedicato ai film e alle animazioni. Inoltre, abbiamo fondato una nuova società dedicata al crowdfunding, iniziamo a occuparci di IoT (Internet of Things), facciamo molta consulenza ad aziende giapponesi… e poi dobbiamo essere a Milano per il Salone!
Molte iniziative, dunque, ognuna delle quali rappresenta un nuovo punto, e chissà che unendo i punti non riusciremo a tirar fuori qualcosa di completamente innovativo. Il design è particolarmente interessante quando cerchi di fare cose realmente nuove, e sento che da questo punto di vista c’è ancora molto da esplorare.
A Maria Cristina Didero, invece, abbiamo chiesto di offrirci uno sguardo da curatrice sull’esperienza di confronto con Oki Sato e sulla costruzione di una mostra che guarda con originalità alla lettura del “fenomeno Nendo”.
Nendo sembra il Re Mida del design, il suo talento va a braccetto con un successo riconosciuto universalmente. Da cosa scaturisce secondo te questo tocco fortunato?
Oki Sato ha una grande spontaneità e facilità nel creare, guarda il mondo intorno a sé e si fa ispirare da idee semplici che riesce a trasmettere in modo diverso: lo Stay-brella, l’ombrello che può stare in piedi da solo reggendosi sul manico non esisteva e lui è stato il primo ad averci pensato. La sua facilità creativa, poi, è coadiuvata anche da un team eccezionale e da infinite ore di lavoro. Spontaneità, duro lavoro e passione.
Oki ha realmente una passione innata e sconfinata per il design. Nel film che proiettiamo in mostra racconta che, quando era ancora studente, ha avuto un’incertezza su quale direzione prendere: “Pensavo che il mondo non avesse bisogno di me”. Credo che alla fine lui abbia trovato un modo personale di interagire con il mondo. E il mondo del design ha sicuramente bisogno di Nendo. Senza considerare che Nendo/Oki Sato è capace di adattare il suo mondo a seconda dell’azienda con cui collabora: credo che questa sia una grande prova di professionalità.
Come curatori, come ci si confronta con una produzione così estesa qual è la sua?
Questa mostra ha rappresentato una vera e propria sfida perché Nendo ha una grande quantità di prodotti sul mercato e tutti condividono lo stesso livello di qualità. Devo dire che la scelta di impostare la mostra per aree tematiche ha aiutato a filtrare. La lista dei progetti in esposizione è stata realizzata con Oki e questa cosa mi è piaciuta molto: la scrematura è stata importante, quello che vediamo è solo una piccola parte della sua produzione.
Come giudichi l’esperienza del Design Museum Holon?
È un museo giovane in un giovane paese, ma penso che Galit Gaon sia stata capace di mettere insieme un programma molto ambizioso ed è per questo che il Design Museum Holon è diventato una destinazione a cui la scena internazionale del design guarda e guarderà come a un luogo dove si riescono a presentare idee nuove.
Il design giapponese nel mondo ha molto appeal, ma è anche curioso che la mostra abbia preso forma da questa inedita triangolazione tra Israele, Italia e Giappone. In conferenza stampa ho detto che il design è un’eccellenza e un orgoglio italiano. Ed è vero, come vuole la leggenda, che proprio in Italia, dove era venuto per visitare il Salone del Mobile, Oki Sato abbia deciso di dedicarsi al design.
Holon // fino al 29 ottobre 2016
Nendo: The Space in Between
a cura di Maria Cristina Didero
DESIGN MUSEUM HOLON
Pinhas Eilon St. 8
+972 (0)73 2151525
info@dmh.org.il
www.dmh.org.il
Pubblicato su Artribune.com il 14 giugno 2016