Improvvisazione, semplicità, rischio. E il Brasile. È quanto racconta Estu’dio Campana, prima esposizione a Roma dei fratelli del design sudamericano. Un’occasione per confrontarsi con l’esuberanza del loro approccio al progetto…
Surrealismo, ready made, alta artigianalità: tutti elementi chiamati in causa per guardare ai vostri lavori. L’arte ha un ruolo privilegiato tra le fonti della vostra ispirazione?
Humberto Campana: L’arte è sempre stata importante, perché quando ho iniziato a fare il designer non mi consideravo un progettista bensì uno scultore. Dell’arte amavo la lavorazione dei materiali, il lato scultoreo del metallo, la manualità delle saldature. Tra le nostre opere d’esordio c’è la collezione Desconfortàveis [Sconfortevoli, N.d.R.], una serie di sedie realizzate per rendere scomodo e provocatorio il nostro rapporto con esse. Marco Romanelli evidenziò nel nostro lavoro una dimensione legata al design piuttosto che all’arte, consigliandoci di far dialogare la nostra poesia e la nostra forma artigianale con l’industria del mobile.
I pezzi esposti alla Galleria O sono tutti il risultato di una ricerca sviluppata in autonomia all’interno del vostro studio. In cosa differiscono dalla vostra produzione su committenza?
Fernando Campana: Entrambe le tipologie nascono come prototipi, dopo un vero e proprio periodo di gestazione nello studio. Noi lavoriamo sempre a un prototipo tridimensionale, quindi tra le nostre proposte scegliamo cosa presentare alle aziende. Alcuni sono compatibili con la produzione industriale, altri no, e con questi ultimi realizziamo pezzi in edizione limitata. È qualcosa che facciamo per nostro piacere personale, ma è anche un modo per coinvolgere le gallerie e per rivolgersi a questa nicchia di mercato.
H.: Per noi è anche importante lavorare in Brasile, avere uno studio dove coinvolgere artigiani locali, recuperandone tecniche in via di estinzione e lavorare con cooperative che operano nelle ex favelas. Credo sia una forma più politicamente corretta di fare design, un’integrazione e non un’esclusione in grado di generare riscatto sociale, autostima, speranza.
Design limited edition: una moda, un business o un punto di forza per la disciplina progettuale?
H.: È un processo di integrazione, di cambiamento. Oggi il mondo è cambiato, c’è più interesse nel design-arte che propriamente nell’arte: il design si capisce più facilmente, è istintivo, mentre l’arte spesso deve essere spiegata.
F.: I confini tra le discipline si stanno sfaldando, come fra arte e design, arte e cinema, cinema e moda, cibo e design. Ognuno deve sentirsi libero di fare quello di cui si sente capace senza però approfittare delle mode. Varcare un confine rappresenta sempre un pericolo, che nel nostro caso le aziende si prendono sempre con noi: non solo Edra, ma ad esempio anche Melissa, con cui abbiamo fatto delle scarpe di plastica.
Il vostro lavoro è stato spesso analizzato sotto le lenti della commistione tra culture. Come per The Barbarians, l’ultima collezione per Edra presentata a Milano lo scorso aprile. Chi sono, oggi, i barbari nel design e quale potere costituito debbono abbattere?
H.: I barbari contemporanei sono senz’altro gli europei, perché attraversano un’epoca di revisione totale. La crisi ha cambiato la mentalità dei consumatori, dell’intellettuale, dei produttori, e noi guardiamo con molto interesse alle nuove attitudini che questo processo sta generando. Un esempio è Martino Gamper, lui è un vero barbaro che porta avanti una rivoluzione del pensiero, lavorando con gli scarti e dimostrando che per fare non c’è bisogno di tanto. In fondo si tratta di un design “emergenziale”, come quello della favela, un modo di ispirarsi non alla povertà ma alle idee semplici. Una qualità che ritroviamo oggi anche in Brasile, con la sua improvvisazione, il sapersi muovere verso nuove direzioni, anche grazie al fatto che abbiamo acquisito l’eleganza per farlo.
Pubblicato su Exibart il 18 novembre 2010