Piccoli oggetti della memoria made in Italy. Icone, a cavallo tra il pubblico e il privato, della nostra cultura familiare e popolare, ma in alcuni casi anche prodotti sconosciuti, poiché relegati a contesti di produzione regionali e ignoti a chi in altre parti d’Italia è nato e tuttora vive.
A individuare in saponette, liquori e barattoli di colla un piccolo universo da valorizzare è stata Anna Lagorio, giornalista attiva nel campo dell’arte e del design, che per prima ha pensato a una piattaforma su Internet capace di funzionare come una vetrina per prodotti italiani di design anonimo. Appena lanciato, il marchio Fattobene si propone non solo di vendere, ma anche di raccontare questo design italiano senza nome. E non solo per offrire, come dice la stessa Lagorio, una nuova accessibilità commerciale a prodotti di nicchia, ma anche per valorizzare la passione manifatturiera di un’Italia che non abdica al primato della sua piccola industria.
Com’è nato lo spunto per l’avventura di Fattobene?
Qualche anno fa, io e il mio compagno abbiamo fatto un viaggio nel sud Italia. Un giorno, mentre eravamo in Calabria, alcuni amici ci hanno fatto scoprire una bevanda al caffè molto popolare nella zona. Il packaging mi è piaciuto subito e mi ha colpito il fatto che fosse praticamente sconosciuta al di fuori della regione.
Da quel momento ho iniziato a prestare attenzione alle storie di oggetti, con particolare riguardo per tutti i piccoli archetipi della quotidianità: nel tempo, ho collezionato cesti, fischietti, girandole, saponi art déco e molto altro. All’inizio era un gioco, ma poi ho scoperto tutto un sistema manifatturiero che lavora seguendo regole antiche, al di fuori del mercato di massa. Fattobene è nato dal desiderio di far emergere questa produzione sommersa, inconsueta e preziosa.
Hai scritto che Fattobene è anche uno strumento per raccontare altrimenti l’Italia manifatturiera. Qual è la tua visione di quest’Italia laboriosa?
Il nostro obiettivo è quello di dar vita a un racconto del Paese attraverso la sua cultura materiale. Credo che in questi ultimi anni ci siamo abituati a considerare l’Italia un luogo paralizzato e asfittico. Per questo mi è sembrato interessante andare nella direzione opposta, lavorando per costruire un altro modo di percepire il Paese.
Personalmente, da quando ho iniziato questa ricerca, ho trovato un mondo parallelo, incontaminato e creativo di cui ignoravo l’esistenza. Mi sono inerpicata sulle montagne per andare a visitare un laboratorio di tessitura, sono entrata in una fabbrica di candele del Seicento, ho visitato luoghi magici conosciuti solo attraverso il passaparola. Nel giro di poco tempo si è creato un grande effetto domino: chiacchierando con le persone, ho scoperto altri spazi, altre realtà industriali. Così ho iniziato a compilare un quaderno e oggi ho raccolto decine di indirizzi che aspettano di essere visitati.
Ti sei ispirata a esperienze estere che hanno lavorato un po’ sugli stessi temi? E come guardi ai destinatari stranieri di questo progetto?
In alcuni Paesi, come Inghilterra, Germania e Portogallo, esistono già esperienze commerciali che rivalutano il proprio “made in”. In Italia, no, mancava una cassa di risonanza per promuovere questi manufatti. I consumatori a cui ci rivolgiamo amano l’alta qualità delle materie prime, il buon design, i packaging originali.
In particolare, per i destinatari stranieri, abbiamo organizzato una versione inglese del sito: per ogni pezzo, oltre a raccontare la storia, diamo consigli di lettura, basati su una bibliografia curiosa, ma facilmente reperibile all’estero. In questo modo, oltre a trovare idee per uno shopping alternativo, gli oggetti diventano veri e propri segni per comprendere il Paese da un’angolazione unica.
Il tuo lavoro di selezione mi ricorda quello di un meticoloso archivista del quotidiano. Come si ritrovano questi piccoli oggetti della memoria? È vero che, spostandosi da regione a regione, ci si imbatte in oggetti che risultano essere dei perfetti sconosciuti?
Facendo la giornalista, ho seguito soprattutto il mio istinto: ho chiacchierato con le persone, sono entrata nelle ferramenta, chiedendo dove avrei potuto trovare produttori di caraffe da osteria o dei secchi per la mungitura, ho visitato molte botteghe storiche per scoprire che cosa è ancora in produzione. E, incredibilmente, mi sono accorta che Google non è la soluzione per tutto: in effetti, molti di questi oggetti non sono presenti in Rete.
In realtà, Internet è fondamentale per la nostra attività di ricerca, ma soprattutto per la sua capacità di mettere in relazione le persone: da quando abbiamo lanciato il sito, molte aziende ci stanno scrivendo per presentarsi e chiederci come entrare a far parte della nostra raccolta. Stessa cosa per i social: pensa che una ragazza mi ha appena indicato un produttore di coperte in Abruzzo che lavorava per Giorgio de Chirico. Una meraviglia! In questo modo, la Rete diventa uno strumento insostituibile: in due non sarebbe possibile mappare tutto il Paese con questa profondità di sguardo. Così, invece, le persone ci inviano suggerimenti, micro-racconti, ricordi, come quello legato a un caffè prodotto nel Salento, tipico profumo delle valigie che da sud tornavano a nord dopo le vacanze.
Oltre che un aggregatore di oggetti, Fattobene è anche una piattaforma di e-commerce. Quale modello di business avete adottato? C’è la possibilità di lavorare su margini di ricavo per questo tipo di oggetti?
Lo shop online è senz’altro il cuore del progetto: in questo momento, stiamo lavorando per creare accordi commerciali con le aziende. Vorremmo partire a settembre con il lancio di gift box per Natale con una selezione curata da noi. L’idea è di cominciare con un sistema di prenotazioni: dal 30 settembre saremo pronti per ricevere gli ordini. In questo modo, per noi è meno rischioso dal punto di vista economico, perchè venderemo solo ciò che è stato ordinato e per le aziende è un bel modo per farsi conoscere e veicolare il proprio marchio.
Da parte nostra c’è un impegno etico nel favorire la diffusione di aziende piccole che, altrimenti, sul lungo periodo finirebbero stritolate dal mercato di massa.
Cosa pensi dell’esplosione del fenomeno vintage? Credi anche tu che, in tempi di crisi, il ritorno a forme dell’infanzia sia una forma di conforto?
Credo che il fenomeno vintage sia una risposta all’imposizione delle grandi catene che si è verificata in modo così massiccio negli ultimi anni: chi di noi non si è lamentato almeno una volta di trovare le stesse cose dappertutto? Oggi i luoghi che meglio rappresentano il desiderio di un pensiero differente sono i mercatini delle pulci o i negozi vintage, dove ciascuno è libero di girovagare e cercare il proprio pezzo unico.
Fattobene si muove in una direzione simile, anche se noi non ci sentiamo vintage. Anzi. Ciò che desideriamo comunicare è proprio la continuità di un sistema produttivo che resiste nonostante tutto.
Pubblicato su Artribune.com il 23 giugno 2015