Fanno una rivista di gran classe, “Inventario”, diretta da Beppe Finessi. Sponsorizzano nientemeno che la Biennale di Venezia. Stanno a Marcon, e del “brand” non gli importa. Loro pensano alle emozioni.
“Meglio partire da un cliché che arrivare a un cliché”, insegnano durante i loro workshop i coreografi Françoise e Dominique Dupuy, precursori della nouvelle danse francese. Un’intuizione che torna in mente a proposito di Foscarini, tra le grandi realtà dell’illuminotecnica in Italia.
A farla da padrone, tra gli open space del loro quartier generale di Marcon, è non a caso la parola ‘emozione’. Un vasto termine-ombrello, pensiamo noi, sicuramente vicino ai presupposti ufficiali di molte aziende italiane che, con poca fantasia, usano questo richiamo per instaurare un canale di comunicazione con i propri interlocutori. Senza condividere, però, la capacità di trasformare una suggestione emotiva in un vero e proprio metodo, orientato al processo e agli obiettivi di innovazione, serialità ed esportazione sui quattro continenti. Come è invece nel caso di Foscarini: qui non è mai la design-star, che pur sempre c’è, a influenzare le proposte in catalogo, né una tendenza effimera che rincorre la velocità del sistema-moda. Piuttosto, è il prodotto a dover parlare di sé, puntando sulla capacità di trasformare una sollecitazione formale in un oggetto iconico. Né algido né virtuosisticamente tecnologico. Il tutto senza mai, peraltro, parlare di “brand”: un termine nel dimenticatoio – che classe! – proprio per chi potrebbe farsi bello delle proprie politiche d’immagine. Dal lancio di Inventario, rivista-contenitore sul progetto, diretta da Beppe Finessi, che ha l’assoluta dignità di un ottimo magazine di settore, fino alla sponsorizzazione della Biennale di Venezia.
Pubblicato su Artribune Magazine #3 e su Artribune.com