Tre aziende e un centinaio di “hacker” per 24 ore insieme. L’obiettivo: stanare idee impreviste ma avvincenti, per mettere in discussione gli scenari abitativi dell’oggi. E riconfigurare, forse, le coordinate della casa di domani.
Una casa connessa, più intelligente, in grado di facilitarci la vita rendendola a misura di abitante. Ecco il tema, banale solo all’apparenza, con cui ha aperto i battenti il programma dell’Innovation Week, la manifestazione, promossa dalla Camera di Commercio di Roma, che ha anticipato la grande kermesse della Maker Faire Rome (leggete l’intervista a Massimo Banzi pubblicata su Artribune proprio ieri) rilanciando con forza i temi legati a sviluppo tecnologico e crescita economica.
Fortunatamente, l’evento scelto per il battesimo inaugurale è sfuggito alla convegnistica di rito e ha prediletto una formula da contest, chiamata hackathon, mettendo insieme il talent show con il sabotaggio creativo grazie a una maratona di 24 ore tutta a base di brainstorming, progettazione e sviluppo di codice. Il genere vi sfugge? Meglio allora prenderci confidenza, perché, giurano gli esperti, ne sentiremo parlare sempre con più insistenza.
Quello che è andato in scena al Maxxi ha preso il nome di H-ACK e ha coinvolto tre aziende dell’eccellenza made in Italy nel comparto casa – Elica, Slamp e Valcucine – insieme a un centinaio di giovani tra makers, designer e smanettoni. L’obiettivo? Ripensare tre prodotti selezionati tra i rispettivi cataloghi aziendali sollecitando non solo l’identificazione di immaginari e destinazioni d’uso finora inesplorati, ma anche la realizzazione di veri e propri prototipi, ingegnerizzati prevalentemente grazie ad Arduino e presentati al pubblico dei makers dopo una sfacchinata andata avanti a cavallo di una nottata.
Non sottovalutiamo l’impatto di questa nuova frontiera della ricerca industriale. Per le aziende che si sono prestate al gioco è stato un po’ come affrontare una piccola rivoluzione copernicana, guardando oltre le risorse dei team ricerca&sviluppo per approdare a quella che potremo definire come un’inedita modalità di crowdsourcing allargato. Anche per i ragazzi, però, la posta in gioco è alta: oltre al gusto per la sfida, l’obiettivo è mettere alla prova le proprie capacità attraverso il gioco di squadra, e magari di farsi notare dalle stesse aziende, sempre più interessate agli hackathon come modalità di recruiting particolarmente efficace.
Sarà questo anche il destino dei progetti vincitori, AUGH, I’n’spirati e Open Kitchen? Presto per dirlo. Intanto i progetti sono esposti alla Makers Faire, selezionati dalla giuria presieduta da Riccardo Luna, Stefano Micelli e Riccardo Donadon, allestiti nella sezione Artigiani Innovativi, co-curata dallo stesso Micelli insieme a Monica Scanu. Ed è proprio a Stefano Micelli, vincitore con il libro Futuro Artigiano dell’ultimo Compasso d’Oro, che abbiamo chiesto di offrirci qualche spunto di riflessione sull’originalità di questa iniziativa.
Hackathon: come nasce e cosa vuol rappresentare questa operazione di “sabotaggio”?
Stefano Micelli: Abbiamo pensato all’hackaton per mettere insieme due strutture che oggi fanno fatica a incontrarsi e a capire i vantaggi dati da un possibile incontro: da un lato la manifattura italiana, il mondo del design e della casa, e dall’altro il mondo dei ragazzi, delle scuole, del digitale. Finora questi due mondi hanno fatto fatica a parlarsi, e per questo noi crediamo che queste ventiquattr’ore immersive possano rappresentare un ponte per esplorare reciprocamente le possibili estensioni, le possibilità di contaminazione. Oggi le imprese sono molto sensibili a questo tema, si rendono conto che i progetti debbono avere qualche cosa in più che ha a che fare con un’anima digitale, con i social network con le potenzialità di Internet. Dal canto loro, i più giovani iniziano a capire che questo non è un mondo vecchio, ma un mondo con grandi opportunità di lavoro.
In una cultura industriale che celebra il brevetto come strada maestra per l’innovazione di qualità, l’open hardware cambia le carte in tavola. Come possono convivere queste due dimensioni?
Stefano Micelli: Molto del made in Italy non è mai stato coperto in senso stretto da brevetti, in parte perché le aziende italiane sono piccole, in parte perché molte tra le nostre attività si prestano meno all’attività di brevettazione. Da questo punto di vista il passaggio verso una cultura open, che è anche il passaggio verso una cultura del racconto del progetto, è un passaggio abbastanza facile. Sicuramente è quello che si sperimenta qui: un racconto di sé che sembra coinvolgere un numero molto grande di persone che possono dare un contributo.
Una volta noi non facevamo queste cose perché eravamo convinti che dietro questi giovani non ci fosse la possibilità di attivare un’intelligenza particolare, ma tanti hackathon che hanno preceduto questo e che spero seguiranno a questo ci dicono che questi giovani che sono all’università possono effettivamente contaminare la cultura aziendale. È quello che gli economisti chiamano “Open Innovation”: un’innovazione che non è più diffusa all’interno di un perimetro di organizzazione aziendale ma si allarga a uno spazio più aperto, e ha bisogno di strumenti per manifestarsi che sono quelli della cultura e della condivisione.
La casa del futuro appare ai più come un orizzonte sfuggente, dai contorni indefiniti. Come ci dobbiamo immaginare le connessioni che metteranno in rete il paesaggio degli oggetti domestici?
S.M.: Ci siamo posti il problema di ragionare su un terreno fortemente inesplorato, quello della casa più intelligente, capace di sfruttare le nuove tecnologie. Ci sono, rispetto ad alcuni anni fa, esempi interessanti di quello che potrebbe succedere: quello degli occhiali, prodotto molto consolidato e prodotto in Italia, oggi nuovamente protagonista grazie alla tecnologia di Google, e quello dell’orologio, sempre più smart, in grado di darci frequenza cardiaca e consumo di calorie. Questi sono esempi di oggetti del quotidiano che, in maniera abbastanza sorprendente, incorporano nuove tecnologie: questo deve accadere anche per la casa.
Rivoluzione maker e occupazione, rivoluzione maker e Pil. A che punto siamo in Italia? La nuova rivoluzione artigiana inizia a generare reddito e occupazione?
S.M.: Sono un grande fautore della rivoluzione maker e sono molto attento a che questa straordinaria energia possa diventare occupazione, impresa, prodotto interno lordo, internazionalizzazione. Questa è una grande opportunità per l’Italia, anche per rivoluzionare i processi. Le nostre imprese, anche le più piccole, non hanno aspettato la rivista Make per buttarsi nelle tecnologie innovative legate al laser cutting o alle stampanti 3d. Qui c’è un passo in più, ed è legato a una fase di crescita legata alle funzioni, a una nuova varietà di forme e di estetiche.
Il mondo del design istituzionale, legato alla tradizione, come si sta muovendo?
S.M.: C’è un’attenzione crescente, ma le aziende sono giustamente molto attente a tradurre tutto questo in valore economico. Le aziende non sono delle scuole: non si pongono semplicemente il problema della scoperta, ma anche di quello, spesso oneroso, della creazione di valore economico. Uno dei passaggi più impegnativi è quello legato all’internazionalizzazione del gusto: molte novità non nascono in un mercato domestico – noi siamo anche in un continente, l’Europa, che è più anziano di realtà come la Cina o gli Stati Uniti. Sono questi i Paesi in cui oggi si definiscono le nuove estetiche e i nuovi bisogni. Spero che lo sforzo da parte nostra sia anche quello di incrociare il gusto di nuove popolazioni, che magari sono meno legate al design classico italiano e sono più attirate da un design tecnologicamente all’avanguardia. La necessità è quella di agganciare la domanda dei Paesi emergenti con un gusto italiano che sia in grado di incorporare innovazione e tecnologia.
E il mondo dell’istruzione come si muove? Siamo in grado di raccontare questa frontiera di innovazione e di fornire strumenti di crescita adeguati?
S.M.: Personalmente, dirigo una fondazione, la Fondazione Nord Est, che si è proposta di dotare le scuole con laboratori che integrino appieno il digital manufacturing nel percorso formativo, in modo da esporre ai giovani – intendo i sedicenni – alle potenzialità di questi nuovi strumenti. Oggi è fondamentale che una nuova cultura tecnologica venga assorbita dalle generazioni più giovani perché queste tecnologie non si imparano dai manuali quanto dalle esperienze, e la nostra scommessa non è tanto quella di insegnare un corso codificato, quanto quello di esporre il maggior numero di giovani a questo tipo di potenzialità. Come Fondazione Nord Est abbiamo lanciato un programma di crowdfunding e abbiamo chiesto alle scuole di raccogliere nella loro comunità di riferimento un po’ di finanziamenti anche per dotarle di tecnologia che è in buona parte anche italiana, e speriamo di poter portare questa iniziativa in giro per l’Italia. Il digital manufacturing è una delle opportunità per fare uscire l’Italia dalla crisi. Questo mi sento di dirlo con una speranza in più rispetto al passato.
Pubblicato su Artribune.com il 2 ottobre 2014