La verità, vi prego, sul colore. Intervista a Riccardo Falcinelli

È in uscita il 26 settembre “Cromorama” di Riccardo Falcinelli, il “grafico-copertina”. Sono cinquemila quelle disegnate dal suo studio in vent’anni di attività e la sua ultima fatica editoriale ricostruisce tutta la straordinaria complessità con cui pensiamo, o dovremmo pensare, il mondo dei colori.

Una patina impalpabile con cui avvolgere il nostro mondo: ecco lo schema mentale a cui facciamo riferimento quando ci confrontiamo con l’universo del colore. Eppure, poco importa che il colore fosse fino all’altro ieri – tanto vale qualche secolo nel corso dell’evoluzione umana – un vero e proprio corpus che non poteva prescindere dalla materia da cui era ricavato, fosse questa una pietra, oppure, strano ma vero, i resti polverizzati di una mummia egizia o l’urina essiccata di una mucca nutrita esclusivamente con foglie di mango.
Materie, queste, destinate a incarnare applicazioni e dimensioni simboliche che oggi ci appaiono quanto mai sfuggenti: non soltanto quando ci confrontiamo con le qualità attribuite, per fare un esempio, al porpora nel I secolo, o alla trama di variazioni tonali che regolano la pittura di GiorgioneTiziano e Tintoretto, ma anche quando ripensiamo alle cromie de La donna che visse due volte di Hitchcock (è peraltro un caso ritrovarne i colori in The Handmaid’s Tale?)
Grafico e art director, docente, prolifico scrittore di saggi dedicati alla cultura visiva, RiccardoFalcinelli gioca con il colore da vent’anni, ad esempio con le oltre cinquemila copertine che ha progettato per le più grandi case editrici del nostro Paese. Con Cromorama ci offre innanzitutto una ricostruzione colta e articolata della complessità culturale, oltre che prettamente visiva, annidata dietro il caleidoscopico registro di cromie che caratterizza la nostra storia. Per approfondirne alcuni aspetti, e per provare a tratteggiare lo stato dell’arte della grafica editoriale in Italia e non solo, abbiamo incontrato l’autore.

In Cromorama racconti innanzitutto quanto la nostra percezione del colore sia stata modificata dall’avvento della società di massa e delle innovazioni tecniche che l’hanno plasmata. Come mai la rivoluzione industriale ha rappresentato uno spartiacque riguardo alla nostra idea del colore?
Nell’arco di cento anni la rivoluzione industriale ci ha messo a disposizione qualsiasi tipo di oggetto in qualsiasi colore. Prima dei coloranti industriali, ciò era impensabile: ad esempio il colore era innanzitutto un materiale o povero o prezioso, per cui il nero veniva ricavato dal carbone e il blu dal lapislazzulo, per restare sugli esempi più famosi. Le ultime generazioni sono cresciute con i pastelli e i pennarelli, educate al fatto che il colore è staccato dalle cose: qualcosa che mettiamo “sopra” una superficie. Questa è una constatazione banale, ma a me affascinava il fatto che fosse così banale. L’industria ha dunque operato una rivoluzione epistemologica nel rapporto che abbiamo con ciò che guardiamo: il tema del libro è sicuramente il colore, che è però anche un pretesto per svelare come, nel nostro rapporto con la dimensione estetica, le cose più banali sono in realtà quelle che si sono costruite in maniera più artificiosa.

Una delle scoperte più interessanti che Cromorama ci svela è che la tinta unita è un’invenzione della modernità. L’avvento del digitale ha in qualche modo enfatizzato questa dimensione flat, come sembra ricordarci anche l’odierno web design?
La tinta unica è un modo di pensare. Per la tecnica, prima quella meccanica dell’800, poi oggi quella digitale, fare la tinta unita è più facile. Se pensiamo all’informatica, costa meno energie fare il file di un’immagine con un solo colore rispetto a una sfumatura. Ciò era impensabile in passato, quando l’industria tintoria doveva anche solo confrontarsi con tessuti e intonaci che sbiadivano con grande facilità, mentre nei mattoncini Lego di quarant’anni fa il colore è rimasto intatto. Per Michelangelo che dipinge la Sistina fare una tinta unita era difficilissimo, e magari non faceva neanche parte dei suoi desideri estetici… forse a Paolo Uccello sarebbero piaciute le tinte unite? Naturalmente non tutti gli illustratori assecondano questa scelta, ne esistono alcuni che io amo particolarmente ‒ come Shout (alias Alessandro Gottardo N.d.R.), Emiliano Ponzi, Simone Rea – che pur lavorando moltissimo in digitale hanno trovato degli escamotage per inserire elementi caldi o pittorici nelle loro opere, scomponendo così l’effetto sintetico della tinta unita.

Riccardo Falcinelli

L’epoca contemporanea che visione ha della tinta unita?
Pensiamo ad esempio a una cosa di cui nel libro non parlo, ossia tutti i filtri di Instagram che sporcano le immagini o che simulano l’effetto di un negativo venuto male. Come spesso accade, la tecnologia ci permette di sviluppare qualche cosa facilmente, ma poi iniziamo a desiderare qualcosa che gli vada contro, e questo spesso si trasforma in una moda. Quando ho iniziato a fare il grafico vent’anni fa, più i colori erano compatti, sintetici, elettronici, più piacevano. L’esplosione di Photoshop all’inizio degli Anni ’90 amplifica qualcosa che era iniziata con l’aerografo all’inizio degli Anni ’80, la sfumatura perfetta, la cromatura brillante. Passano poi pochissimi anni ed esplode un altro tipo di gusto, il rovinato e il destrutturato, e diventa una star uno come David Carson, che è stato il maestro della grafica sporca. Pensiamo all’entusiasmo incredibile che c’è stato negli ultimi anni per il ritorno alla stampa in piombo, con i caratteri mobili in legno: tutte reazioni, secondo me, all’imperare della tinta unita.

Nel libro insisti molto sul fatto che noi desideriamo un colore perché ci ricolleghiamo all’idea che quel colore esprime. La moda, che hai già chiamato in causa, che ruolo ha in questo meccanismo? Credi alle predizioni tipo il colore dell’anno di Pantone?
Quello del Pantone è un gioco che non credo abbia nessun tipo di influenza: Pantone usa il colore dell’anno come forma di autopromozione aziendale. Il vero potere della moda arriva quando alcuni designer o brand riescono a imporre una singola tinta o un insieme di tinte che si trasformano in un immaginario. Dietro c’è sicuramente uno studio di cui parlo anche in Cromorama: ci sono persone che studiano cosa è andato di moda, quello che è passato, quello che potrebbe piacere, sebbene poi ogni anno vengano messi in commercio un’infinità di colori nuovi. Quello che poi vince, a mio parere, è ciò che darwinianamente, per ragioni anche imperscrutabili, finisce per affermarsi e viene poi molto imitato. Più che di singole tinte mi viene da dire che quello che finisce per andare di moda è un sistema di tinte.

Per esempio?
Ad esempio a Roma hanno aperto un negozio della catena francese Ladurée, gli “inventori” del macaron, che ha tirato fuori come colore brand un verde salvia pastello. Un colore del genere sarebbe stato impossibile venti anni fa perché è vecchio, polveroso, antico. Oggi è diventato di successo poiché, a causa dell’esplosione della moda vintage, siamo ossessionati dal recupero di quello che avevamo l’altro ieri. Qualcosa di impensabile negli Anni ’80 e ’90, quando tutto doveva essere il nuovo per forza, il futuro, il tecnologico. Al contrario, se oggi ci guardiamo intorno vediamo che la scelta di queste tinte pastello sta diventando sempre più diffusa ad esempio anche nel web, dove stiamo recuperando uno spiccato gusto Anni ’50.

Riccardo Falcinelli, Cromorama (Einaudi, 2017). Photo © Giulia Natalia Comito

In Cromorama insisti molto sul ruolo dell’industria nel creare degli standard percettivi che si sono oramai imposti come veri e propri archetipi: un esempio su tutti, la matita gialla, che vende di più rispetto a quelle in altri colori. Eppure, il discorso at large sul design – a partire dal mobile ma non solo – continua a porre l’accento sull’artigianalità come possibilità di deviazione dal prodotto seriale. Come convivono secondo te questi due livelli quando parliamo di colore? 
La ricerca sulla deviazione dal seriale esiste ma rimane in ambito di élite, destinata a quei pochi che vantano una fortissima vocazione artistica. Non dico che non sia interessante, ma non è quello che cambia le carte in tavola. Piuttosto, l’industria ha la possibilità di prendere delle forme inventate trenta, quarant’anni fa e di trasformarle in un altro contesto, contribuendo a plasmare il gusto del grande pubblico. Questo meccanismo, a tratti perverso, è senz’altro affascinante: dispiace però che il pubblico si scordi chi ha realmente inventato quelle cose, come ad esempio quando ci troviamo di fronte un’ennesima derivazione di una sedia degli Eames, ora trasformata in un’altra cosa. Del resto il nostro sguardo si è abituato alla commistione tra generi e forme diverse, che tendiamo a mettere sullo stesso piano.

Così come chi vede una copia degli Eames dovrebbe riuscire a riconoscere a ritroso il modello autentico, come è possibile rieducare lo sguardo per vedere i colori come poteva fare un bizantino o un uomo del Rinascimento?
In generale è impossibile, si può però fare uno sforzo di razionalizzazione, ma solo a scuola. Non credo che esista un luogo altro deputato a questa analisi. Il libro si chiude dicendo che noi insegniamo ai bambini che puoi fare il verde mischiando il giallo con il blu, ma questa non è una verità. Diciamo allora che è un invito: l’unica cosa che possiamo fare per educare al design e all’arte è la scuola.

Tra i molti esempi che citi nel libro c’è anche quello di una Madonna lignea conservata nel museo di Liegi che nel corso della sua storia è stata ridipinta quattro volte, da nero, a blu lapislazzulo, a oro, a bianco dell’Immacolata, a seconda dei valori che questi colori hanno incarnato nel tempo. Se dovesse essere nuovamente ridipinta oggi, di che colore sarebbe?
Se ti potessi rispondere con una battuta direi che la farebbero di plastica, al Salone del Mobile magari con una plastica innovativa e traslucida, mentre in Vaticano con una plastica con cui producono le Madonnine di Lourdes. Probabilmente poi oggi non avrebbe un unico colore, perché in fondo l’immagine della Madonna è sempre stata un gadget anche quando i gadget non esistevano – i primi santini sono della metà del ‘500 – e oggi tu puoi avere i santini in più colori, a scelta del devoto.

Il colore, ci insegni, è soprattutto un’aspettativa. Eppure, esiste oggi un colore che come nel passato interpreta una virtù? O che assume un valore metafisico? 
Non credo un singolo colore, ma delle gamme sicuramente. Ad esempio a tutt’oggi continuiamo ad attribuire un valore di eleganza a tutto ciò che è scuro. Più gli sport sono lussuosi, penso allo sci o alla barca a vela, e più diventi colorato, ma non puoi andare con i pantaloni fucsia a lavorare in banca. Non sta nelle regole, a prescindere da quanto possiamo essere rivoluzionari. Se lo fai, sei un eccentrico. Oggi la nostra società ammette che tu ti possa magari vestire di fucsia, ma in questo modo rientri subito nella categoria degli eccentrici.

Riccardo Falcinelli, Cromorama (Einaudi, 2017). Photo © Giulia Natalia Comito

Nella tua carriera hai disegnato o supervisionato cinquemila copertine e ricoperto il ruolo di art director, ad esempio con Minimum Fax o oggi con il giornale Pagina99. Quali sono le tue strategie per rendere una copertina intrigante ed efficace?
Innanzitutto ci si prova, con l’esperienza. Non esiste una formula a priori. In generale la cosa fondamentale è immaginarsi non il libro, ma chi lo compra. Lo stesso classico di Dostoevskij, Tolstoj, Flaubert ha avute migliaia di copertine. Come viene stampato a Mosca o come te lo progetta Penguin cambia naturalmente molto, poiché la copertina viene adattata all’idea che le persone hanno di quel tipo di libro in quello specifico contesto. Lo stesso vale per i generi: se devi comunicare un saggio autorevole devi rientrare nel registro che quel tipo di lettore recepisce come tale. Io non posso fare una copertina troppo pop per un saggio politico di Laterza: difficilmente si esce dalla palette del rosso, bianco e nero, e magari ci si affida a un lettering senza immagini perché è percepito come più giornalistico. Se sto facendo un thriller per Einaudi Stile Libero, il mio modello è il cinema: sto proponendo ai lettori qualcosa che si offre come parallelo a Netflix o alla sala cinematografica.

C’è spazio per la creatività?
Codici e aspettative sono senz’altro consolidate, ma è possibile giocare con aspettative e stereotipi con un guizzo personale. Tutti gli editori mettono un ritratto quando è in ballo la narrativa femminile? Troviamo il modo di fare questa cosa in maniera un po’ diversa. Questo discorso mi sta molto a cuore perché per me è sbagliato puntare all’originalità a tutti costi – di fatto un falso valore ‒, ma credo invece sia possibile trovare il modo di raccontare la tua storia all’interno di un codice. Lo trovo infinitamente più interessante e anche più sensato. I libri sono per i lettori, quindi andare a fare una copertina di grafica sperimentale per una persona che vuole un libro da ombrellone è un dispetto.

Cosa pensi dell’uso della fotografia stock per la progettazione di copertine? 
Oggi si produce un numero di libri enorme, quindi le immagini stock nascono dal fatto che i tempi di lavorazione sono strettissimi. Metà delle copertine che progettiamo in studio non potremmo farle altrimenti perché non ci sarebbe neanche il tempo da parte degli iconografi di poter attingerle da fonti più complesse. In realtà, se ti devo dare una risposta erudita, a me la cosa diverte parecchio: io penso che tra un secolo, quando la gente studierà quali erano gli stereotipi iconografici del 2017, vedrà che in giro c’erano un sacco di cose false, perché lo spirito delle immagini stock è quello di essere un condensato di luoghi comuni che però sono rappresentativi di idee e attitudini. Innanzitutto delle banalità del mondo contemporaneo: le immagini, anche quelle artistiche, oggi non hanno più a che vedere soltanto con qualche cosa di speciale.

Perché? Pensi che la nostra epoca stia normalizzando la banalità? 
Perché la banalità è veloce. È come la frase di Twitter che diventa facilmente stupidaggine, razzismo, generalizzazione. In un’epoca in cui tutti vanno di corsa, il banale è quello che riconosci a colpo d’occhio. Ciò non significa che non ci siano gli spazi per fare altre cose. Quando le persone rimpiangono il passato e dicono che era tutto più complesso, io dico sì, ma era tutto anche molto più aristocratico. Oggi la sfida è riuscire a fare cose complesse all’interno di questo sistema veloce.

Qual è lo stato dell’arte nella progettazione di copertine nel nostro Paese? Quali gli esempi esteri che ti piacciono di più? 
Le copertine cambiano da Paese a Paese perché, come abbiamo detto, a essere diverso è l’immaginario collettivo delle persone. Per farti un esempio, gli inglesi sono dei lettori fortissimi e questo ti permette di mettere qualsiasi cosa sulla copertina di un romanzo popolare. Se in Italia facciamo un romanzo popolare, considerando che i lettori sono meno e sono deboli, dobbiamo usare immagini didascaliche. Se in Italia pubblichiamo una storia della barca, dobbiamo mettere in copertina una barca. Per gli inglesi, al contrario, la copertina può mostrare anche un albero.

E quando Einaudi, per fare un esempio, usava negli anni ’70 solo grafica astratta?
Innanzitutto Einaudi è un caso particolare, poiché all’epoca non utilizzavano volutamente immagini didascaliche. C’è da dire che sono successe due cose: il pubblico è cambiato moltissimo e quella generazione di lettori non esiste più. Soprattutto, il modello Einaudi è andato in crisi: loro per primi negli Anni ’80 avevano difficoltà con le vendite poiché non si vendeva più qualunque cosa. Oggi i lettori sono più generalisti rispetto agli Anni ’70, quando il profilo del lettore di best seller esisteva meno: sicuramente un tempo c’era più vivacità e si leggeva di più. Ma c’erano anche meno cose da fare.

 

Pubblicato su Artribune.com il 24 settembre 2017