Il National Design Museum non smentisce, ancora una volta, l’equilibrio collaudato del proprio punto di vista sulla disciplina: depurata di ogni personalismo, lontana da una ricerca formale pretestuosa e sensazionalistica, al contrario animata dalla consapevolezza di rappresentare uno strumento privilegiato – quanto mai necessario – di innovazione tecnologica e sociale.
Un approccio da problem-solving, non scontato in tempi in cui l’obsolescenza programmata del design sembra aspirare a ritmi e modalità di consumo da fashion system. Ma, nella sua solida visione, Why Design Now? appare soprattutto agli occhi del visitatore europeo come un concentrato di esperienza americana: c’è il pragmatismo che privilegia la funzione e il mercato, c’è il nesso imprescindibile con la scienza, c’è quell’idea del “keep it simple” che si fa antidoto a una fruizione elitaria e che ambisce a tradursi in linguaggio di massa, a vantaggio del benessere allargato della comunità.
L’esposizione – curata da Ellen Lupton con Matilda McQuaid, Cara McCarthy e Cynthia Smith – articola il proprio showcase intorno ai temi di Energia, Mobilità, Comunità, Materiali, Prosperità, Salute, Comunicazione e Semplicità, senza soluzione di continuità tra successi planetari e prototipi di giovani laureati. Capita così che prodotti già conclamati – si pensi a Twitter, all’iPhone o a Kindle – possano coesistere nella stessa sezione con un orologio biologico artificiale (Artificial Biological Clock di Revital Cohen), progettato per informare le donne sull’opportunità, sociale prima che fisica, di programmare la propria maternità.
O che oggetti ipertecnologici, come automobili ibride (Idea plug-in hybrid electric fleet vehicledi David Busch e Rollin Nothwehr) e cargo a zero emissioni (E/S Orcelle di Wallenius Wilhelmsen Logistics) convivano con artefatti volutamente low-cost e low-tech, come nel caso del Samarth bicycle trailer (di Radhika Bhalla), un carrello multifunzionale per biciclette pensato per facilitare la vita di chi compie quotidianamente chilometri per l’approvvigionamento di acqua o legna da ardere.
Trasversale, e inevitabile, l’attenzione verso la sostenibilità ambientale, che ricorre oltre che nella sezione Energia anche in quella relativa ai Materiali (tra cui VerTerra, piatti biodegradabili ricavati dalle foglie di palma), alla Salute (Solvatten, il purificatore per acqua alimentato con il solare, di Petra Wadström), e alla Comunità, ad esempio con H2Otel (di Thomas Rau), hotel olandese che supplisce al proprio fabbisogno energetico sfruttando potenzialità e applicazioni dell’acqua. Progetti, questi ultimi, destinati in buona misura a essere soppiantati nel 2013, quando la prossima triennale del Cooper Hewitt non mancherà di presentarci artefatti di “buona volontà” aggiornati a una release successiva. Testimoniando, nuovamente, un approccio quanto mai pragmatico: che rinuncia al cliché della “timeless elegance”, stando alle parole di Ellen Lupton nella prefazione al catalogo della mostra, a favore di una più ragionevole “relative durability” orchestrata nello spazio del presente e del futuro prossimo.
Pubblicato su Exibart il 16 settembre 2010