{"id":3153,"date":"2020-08-26T10:02:15","date_gmt":"2020-08-26T10:02:15","guid":{"rendered":"https:\/\/giuliazappa.net\/contro-il-design-per-una-controstoria-del-progetto\/"},"modified":"2020-08-26T10:02:15","modified_gmt":"2020-08-26T10:02:15","slug":"contro-il-design-per-una-controstoria-del-progetto","status":"publish","type":"post","link":"https:\/\/giuliazappa.net\/en\/contro-il-design-per-una-controstoria-del-progetto\/","title":{"rendered":"Contro il design: per una controstoria del progetto"},"content":{"rendered":"\n
Emanuele Quinz ci racconta la sua ultima fatica editoriale, un volume edito da Quodlibet che mette in fila i movimenti e le tensioni che hanno animato le avanguardie del design degli ultimi cinquant\u2019anni. <\/strong><\/p>\n\n\n\n \u00c8 un libro di dialoghi e scambio, oltre che di sussulti rivoluzionari a cavallo tra utopia, ricerca e normalizzazione, quello che Emanuele Quinz, professore associato all\u2019Universit\u00e0 Paris 8 e ricercatore associato all\u2019EnsadLab, d\u00e0 alle stampe dopo oltre dieci anni di confronto serrato con tre generazioni di designer che hanno fatto della propria ricerca progettuale un\u2019operazione laterale rispetto al mainstream legato al mantra produzione-distribuzione-consumo.<\/p>\n\n\n\n “Contro l’oggetto. Conversazioni sul design” \u00e8 innanzitutto il tentativo di mettere in relazione tre grandi stagioni che hanno immaginato una presenza altra degli oggetti nel mondo: la stagione radicale italiana, il design olandese anni \u201990 del \u201cconceptual design in context\u201d e, infine, il critical design inglese del primo decennio del 2000. Accomunati dalla stessa tensione, eppure diversissimi per afflato politico o inclinazione narrativa, questi tre periodi costituiscono per l\u2019autore un punto di osservazione privilegiato per porre le basi di una teoria del design critico, fatta qui, come ci ricorda lo stesso Quinz, di \u201cepisodi come frammenti di una sequenza, o meglio come le curve di una sismografia che indica le risorgenze di un fenomeno\u201d, di cui l\u2019autore cerca di \u201cvalutare di volta in volta le costanti e le variabili\u201d. Delineando con grande cura il concatenarsi di questi movimenti, eppure lasciando a ciascun protagonista la possibilit\u00e0 di dare spazio e parola ai propri d\u00e9rapages, il libro permette di addentrarsi nelle storie dei singoli designer, restituiti come personaggi ricchi, a tutto tondo, reticenti alla canonizzazione eppure animati da visioni e vocazioni totalizzanti.<\/p>\n\n\n\n Il titolo del libro evoca un antagonismo esplicito nei confronti dell\u2019oggetto. Eppure, i designer a cui dai voce sono a diverso titolo quasi tutti implicati nel circuito di produzione. Qual \u00e8 il valore della parola contro? L\u2019oggetto radicale \u00e8 in fondo sempre a rischio di naturalizzazione?<\/strong> Non credi che nel caso di Droog Design sia avvenuta la stessa cosa?<\/strong> Nel corso delle conversazioni raccolte nel libro, evochi sempre con i tuoi interlocutori il rapporto tra design e arte. Ti sembra che questo confine sia pi\u00f9 significativo di altri? Cosa racconta il suo spostamento del tempo presente?<\/strong> Qual \u00e8 la falla logica di questo assunto, se c\u2019\u00e8?<\/strong> Nel libro menzioni spesso il fatto che la ricerca nel design sia un territorio ancora in divenire. Quali ti sembrano i campi di esplorazioni pi\u00f9 fertili?<\/strong> Cosa hai imparato in merito alla sollecitazione della parola nei progettisti, persone non sempre abituate a tradurre la ricchezza della loro pratica progettuale con la parola?<\/strong>
Come spiego nell\u2019introduzione, questo libro non \u00e8 un manifesto contro l\u2019oggetto. Tra i designer che ho intervistato ce ne sono alcuni – penso ad esempio a Matali Crasset – che progettano oggetti per la grande distribuzione e allo stesso tempo sviluppano una riflessione filosofica e sociale oltre l\u2019oggetto e, a volte, contro l\u2019oggetto. Si tratta di riconnettere il progetto del design alle sue radici antropologiche, al di l\u00e0 degli stili e del sistema dei consumi. E allo stesso tempo, di sottolinearne il potenziale critico. La questione della naturalizzazione, del fatto che anche le esperienze pi\u00f9 sovversive e critiche vengono assorbite e quindi neutralizzate dalle logiche commerciali, rappresenta a mio avviso uno dei grandi problemi e vale anche per l\u2019arte contemporanea. In \u201cPer una critica dell\u2019economia politica del segno\u201d, Jean Baudrillard aveva analizzato questa dinamica dicendo che il design \u00e8 una fatalit\u00e0, e che anche gli oggetti artistici pi\u00f9 rivoluzionari vengono assimilati dalla societ\u00e0 del consumo diventando design. Io credo che non ci sia alcuna fatalit\u00e0, n\u00e9 per l\u2019arte n\u00e9 per il design. Al contrario, proprio perch\u00e9 il rischio \u00e8 alto, \u00e8 richiesto un vero e proprio impegno politico. \u00c8 anche un problema storico e storiografico che a me interessa molto e che riguarda la trasformazione del Critical Design inglese, lanciato da Dunne & Raby alla fine degli anni \u201990, in cui molte proposte di design sovversive si sono banalizzate diventando dei gadget o delle installazioni molto glamour.<\/p>\n\n\n\n
Come ammette lo stesso Gijs Bakker, \u201cDroog Design \u00e8 diventato uno stile e questo non sarebbe mai dovuto succedere\u201d. Il Critical inglese ha inasprito i toni rispetto al design concettuale olandese, che rappresenta un punto di equilibrio tra le proposte del contro-design italiano. Al contrario dei radicali italiani, che hanno esplorato dei fronti teorici o utopici e gli inglesi che hanno sostituito l\u2019oggetto con lo script e la dimensione narrativa, gli olandesi hanno mantenuto al centro dell\u2019attenzione l\u2019oggetto – un oggetto certamente concettuale, ma pur sempre un oggetto. Parlando anche in veste di insegnante, ho potuto constatare come il Critical Design sia diventato il pane quotidiano di molti studenti. Del resto, se parli con gli studenti di Dunne & Raby emerge come, all\u2019epoca, tale tendenza abbia portato una ventata di libert\u00e0 rispetto alle costrizioni, ai cahier de charges industriali o post-industriali. Uno dei punti di partenza del libro Contro l\u2019oggetto \u00e8 la domanda: \u00e8 possibile un design concettuale, o si tratta di una sorta di contraddizione in termini perch\u00e9 il design dovrebbe essere funzionale? Nell\u2019intervista a lui dedicata, Elio Caccavale esprime questo punto molto bene: non \u00e8 importante solo pensare l\u2019oggetto, il prototipo, o lo scenario concettuale come fine del progetto. Al contrario, rappresenta solo l\u2019inizio del processo, dove l\u2019oggetto costituisce il pretesto che ci permette di lanciare un dibattito e dare impulso a una trasformazione della societ\u00e0. L\u2019alternativa, altrimenti, \u00e8 un oggetto artistico, una scultura o un\u2019installazione da presentare in galleria, neutralizzando il suo potenziale critico. <\/p>\n\n\n\n
Dieci anni fa questa domanda era molto d\u2019attualit\u00e0, perch\u00e9 c\u2019\u00e8 stata tra gli anni 90 e i 2000, un\u2019onda di pratiche nell\u2019arte contemporanea \u2013 penso ad esempio ad artisti come Liam Gillick, Martin Boyce, Andrea Zittel o Tobias Rehberger \u2013 che guardava all\u2019oggetto di design come un sintomo del progetto razionale del modernismo, proponendone una decostruzione a partire dal punto di vista dell\u2019arte. Allo stesso tempo molte pratiche di design adottavano dei formati vicini a quelli dell\u2019arte. Negli ultimi anni, da un lato altri temi si sono rivelati pi\u00f9 urgenti rispetto a quelli delle frontiere del design, dall\u2019altro molti designer si sono messi a giocare sull\u2019ambiguit\u00e0, proclamandosi sia artista che designer. Questo cambiamento mi sembra interessante, come tutte le questioni legate alle definizioni, non perch\u00e9 queste debbano necessariamente definire un dominio in cui si fissano una volta per tutte delle frontiere, ma perch\u00e9 mi interessa capire come evolve la riconfigurazione, la rinegoziazione di questi ambiti disciplinari. In realt\u00e0, a me non \u00e8 il design in s\u00e9 che interessa, ma come i designer definiscono il design. La definizione non \u00e8 solo un programma tecnico, ma un vero e proprio progetto politico. Allo stesso tempo, sono molto critico rispetto all\u2019ideologia che circola secondo la quale il design \u00e8 lo strumento che pu\u00f2 salvare il mondo.<\/p>\n\n\n\n
Parlo in veste di formatore: la formazione dei designer \u00e8 sempre di meno una formazione generalista ed \u00e8 sempre di pi\u00f9 una formazione specializzata. Sto curando l\u2019edizione francese di Design for the Real World di Victor Papanek, in cui afferma che \u201cthe designer is a synthesist\u201d, una figura di sintesi che deve disporre di una cultura capace di spaziare in domini diversi e di coordinare competenze e esperienze diverse. A me non sembra che i designer oggi dispongano di questa cultura. Per questo \u00e8 necessario riaprire la formazione nelle scuole: se vogliamo dare il mondo in mano ai designer, dobbiamo assicurarci che abbiano una cultura a largo spettro e non solo iper-specializzata.<\/p>\n\n\n\n
Oggi la ricerca tecnologica \u00e8 fondamentale. La nozione di design \u00e8 nata all\u2019interno del progetto della modernit\u00e0, ne costituisce lo strumento, l\u2019arma. Il progetto della modernit\u00e0 \u00e8 cambiato, ma non si \u00e8 estinto. Non si parla pi\u00f9 di progresso bens\u00ec di innovazione, ma la siamo rimasti alla stessa matrice, e affrontando le grandi questioni ecologiche \u2013 Papanek \u00e8 stato uno dei primi a discutere il problema, oggi lo farebbe Bruno Latour \u2013 si impone una riflessione sulla possibilit\u00e0 di riconsiderare o addirittura rinunciare al progresso per preservare la Terra, invertendo questa ineluttabile corsa in avanti. Allo stesso modo, anche la questione del vivente \u00e8 di grande interesse, oggi il rapporto tra naturale e artificiale diventa sempre pi\u00f9 fragile. In ogni caso, per la sua posizione strategica, mi sembra che il design possa costituire un osservatorio strategico delle trasformazioni della societ\u00e0. E quando oggi si parla della societ\u00e0, \u00e8 necessario estendere il perimetro dall\u2019umano al non umano: e quest\u2019estensione \u00e8 una delle sfide pi\u00f9 interessanti.<\/p>\n\n\n\n
Ogni caso \u00e8 diverso. Ma proprio perch\u00e9 si sono costruite nel tempo, preferisco parlare di conversazioni che di interviste. Degli scambi e dei dialoghi che si sono intrecciati negli anni. Per esempio, il testo di Aldo Bakker ha subito innumerevoli riscritture, con un\u2019attenzione chirurgica abbiamo rivisto insieme ogni termine: ne \u00e8 venuta fuori una costellazione di concetti che ci ha sorpresi tutti e due. Il dialogo con Pierre Charpin e Mathieu Mercier all\u2019origine era lunghissimo (nel libro \u00e8 pubblicato solo un estratto) e nasceva dall\u2019idea di confrontare gli approcci di un artista concettuale e di un designer che lavorano su forme molto simili e condividono riferimenti storici comuni. Un\u2019altra intervista che mi ha dato soddisfazione \u00e8 stata quella con Martino Gamper, perch\u00e9 si \u00e8 scoperto progressivamente, rivelando una grandissima cultura, anche filosofica. Alcuni designer erano refrattari all\u2019idea di teorizzare il loro lavoro. Ma non gli italiani, in particolare quelli della generazione dei radicali, che consideravano l\u2019elaborazione di una posizione teorica una parte fondamentale del loro mestiere di designer. Spesso hanno inventato delle formule preziose, che danno il nome a delle estetiche specifiche \u2013 penso all\u2019anarchitettura di Gianni Pettena, al no-form di Clino Trini Castelli. Oggi, invece, \u00e8 sempre pi\u00f9 raro che i designer prendano posizione in un contesto teorico e culturale. E questo secondo me \u00e8 problematico. <\/p>\n\n\n\n