{"id":3190,"date":"2018-06-13T13:49:17","date_gmt":"2018-06-13T13:49:17","guid":{"rendered":"https:\/\/giuliazappa.net\/progettare-comportamenti-e-tempo-di-neurodesign\/"},"modified":"2018-06-13T13:49:17","modified_gmt":"2018-06-13T13:49:17","slug":"progettare-comportamenti-e-tempo-di-neurodesign","status":"publish","type":"post","link":"https:\/\/giuliazappa.net\/en\/progettare-comportamenti-e-tempo-di-neurodesign\/","title":{"rendered":"Progettare comportamenti. \u00c8 tempo di neurodesign"},"content":{"rendered":"
Che cos\u2019\u00e8 il neurodesign? E in quali campi trova una diretta applicazione? Dal packaging al digitale, una riflessione sulle nuove frontiere del design.<\/strong><\/p>\n Cosa si cela dietro la compulsione con cui scorriamo avidamente le pagine di un social network? E cosa c\u2019\u00e8 dietro quell\u2019impulso che, tra gli scaffali del supermercato, ci porta ad acquistare un prodotto piuttosto che un altro? Tra spazio fisico e mondo digitale, nuovi \u201cpersuasori occulti\u201d sembrano voler condizionare il nostro subconscio, orientandolo verso atteggiamenti e abitudini mirate. Un fenomeno di cui si discute molto, almeno dall\u2019avvento della societ\u00e0 di massa (e dei relativi consumi), ma che oggi si arricchisce di una nuova, sofisticata consapevolezza scaturita dalle ultime conquiste delle scienze cognitive. IL PACKAGING Abbandonando il reame dei prodotti fisici, l\u2019ambito dove il neurodesign \u00e8 stato massivamente impiegato \u2013 e, allo stesso tempo, si \u00e8 pi\u00f9 ritrovato pi\u00f9 sotto attacco \u2013 \u00e8 certamente quello del digitale. Il \u201cprocesso\u201d alla Silicon Valley \u00e8 uno dei temi di maggiore discussione pubblica negli ultimi tempi, come ci insegna il caso dell\u2019uso non consensuale dei nostri dati personali da parte di Cambridge Analytica. Eppure, la critica alla bont\u00e0 e all\u2019efficacia del sistema non si limita a un errore una tantum, ma a un dato fondativo circa la maniera con cui miliardi di utenti utilizzano applicazioni e social network. C\u2019\u00e8 chi, come Nicholas Kardaras, tra i maggiori esperti americani nella cura dalle dipendenze, non ha esitato a parlare di \u201ceroina digitale\u201d riferendosi al nostro consumo sempre pi\u00f9 ossessivo di posta elettronica e social network. A essere messo sotto accusa, in particolare, \u00e8 il modo in cui queste interfacce sfruttano il funzionamento della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il principio del piacere e della ricompensa nel nostro cervello: l\u2019uso di apparecchi elettronici comporta un innalzamento dei livelli di dopamina \u2013 pensiamo al nostro compiacimento per un alto numero di like a un post su Facebook \u2013 che alimenta il circuito della dipendenza celebrale e pu\u00f2 portare alla regressione della nostra corteccia frontale. Un rischio, come descrive in Glow Kids. How Screen Addiction is Hijacking our Kids, particolarmente elevato per una fascia altamente sensibile ed esposta: quella dei bambini. Una conclusione meno perentoria, ma non per questo meno determinata nel denunciare i possibili danni celebrali di una dipendenza da social network & co., arriva dal teorico e business angel Nir Eyal. Senza troppi giri di parole, nel suo libro Hooked. How to Make Habit-Forming Products, non esita ad affermare che il nostro comportamento pu\u00f2 oramai essere progettato. E che \u00e8 proprio l\u2019innalzamento dell\u2019eccitazione e dell\u2019appagamento scaturito dalla dopamina a rivelarsi una delle chiavi di volta per l\u2019efficacia commerciale di un nuovo servizio digitale.<\/p>\n DOPAMINA E DINTORNI Pubblicato su Artribune Magazine #43 e su Artribune.com il 13 giugno 2018<\/em><\/p>\n","protected":false},"excerpt":{"rendered":" Che cos\u2019\u00e8 il neurodesign? E in quali campi trova una diretta applicazione? Dal packaging al digitale, una riflessione sulle nuove frontiere del design. Cosa si cela dietro la compulsione con cui scorriamo avidamente le pagine di un social network? E cosa c\u2019\u00e8 dietro quell\u2019impulso che, tra gli scaffali del supermercato, ci porta ad acquistare un … <\/p>\n
\nIl design, ancora una volta, non resta a guardare, dimostrandosi un intermediario imprescindibile per concepire e disegnare nuove interfacce in grado di catturare attenzione e comportamento. Fra sperimentazioni d\u2019avanguardia e qualche certezza oramai acquisita, questa novella branca del design ha oggi un nome: neurodesign. A praticarla \u2013 o a combatterla, con una nuova generazione di campagne di attivismo civico \u2013 sono imprenditori, uomini del marketing, designer e intellettuali che indagano le applicazioni dei dati scaturiti dalle ricerche delle neuroscienze nel processo di design. Con esiti ancora aperti e con risvolti etici a tratti controversi.<\/p>\n
\nTra i primi settori che hanno rivolto il loro interesse a questo promettente approccio troviamo il packaging. Il perch\u00e9 \u00e8 presto detto: in un\u2019ottica di incremento delle vendite, la possibilit\u00e0 di testare i meccanismi neurali che condizionano la nostra risposta estetica a un oggetto diventa un asso nella manica per battere l\u2019agguerrita concorrenza in un mercato spesso al limite della saturazione. Ma come capire le nostre reazioni di fronte a questo o quell\u2019altro prodotto in maniera presumibilmente scientifica? A farlo ci pensano una serie di test che cercano di decriptare il modo principalmente inconscio con cui valutiamo un\u2019immagine. Oltre alle scansioni celebrali e al tracking del movimento dei nostri occhi, gi\u00e0 sperimentate da tempo, le nuove metodologie comprendono il Facial Action Coding, che misura i cambiamenti involontari dei nostri muscoli facciali quando guardiamo un\u2019immagine, e l\u2019Implicit Response Testing, che registra le associazioni automatiche instaurate nel nostro cervello tra immagini e parole. Fra i primi a testare l\u2019efficacia di queste valutazioni \u2013 tutte eseguibili online su un gruppo di utenti campione a un costo realmente accessibile \u2013 c\u2019\u00e8 il gigante della grande distribuzione americana Tesco, che ha impiegato tecniche combinate di neuromarketing per la produzione del packaging della sua linea di piatti pronti Finest.<\/p>\n
\nUna consapevolezza, questa, che chiama in causa anche la comunit\u00e0 degli sviluppatori, responsabili, secondo alcuni, di creare interfacce che sfruttano le vulnerabilit\u00e0 della psiche umana. Una posizione non lontana dai mea culpa insiti nelle ultime dichiarazioni di alcuni pezzi da novanta del mondo hi-tech americano, tra cui si annoverano Sean Parker e Chamath Palihapitiya, rispettivamente cofondatore di Napster ed ex vicepresidente di Facebook.
\nIn un clima che tende sempre pi\u00f9 al pessimismo non mancano per\u00f2 coloro che, nella stessa comunit\u00e0 della Silicon Valley, cercano di invertire la rotta. \u00c8 il caso della start-up Dopamine Labs, specializzata nella creazione di applicazioni che sfruttano il meccanismo della dipendenza dopaminica per metterla al servizio di buone cause, quali fare pi\u00f9 sport o non tornare sui social. Non diversa la missione di Time Well Spent, una non profit che promuove iniziative in grado di combattere il deficit cronico di attenzione che affligge un numero sempre maggiore di utenti. Il calibro dei personaggi coinvolti nel progetto la dice lunga sulla pervasivit\u00e0 raggiunta dalla consapevolezza che troppo schermo sia dannoso per la nostra salute. Pur facendo ben sperare sulla possibilit\u00e0 di poter correggere il tiro alle storture del sistema.<\/p>\n