Dal loro studio di Betlemme, gli architetti Elias e Yousef Anastas ripensano il progetto locale senza nostalgia e puntano tutto sull’interazione con la comunità manifatturiera. Con esiti formali che scalzano il genius loci e rinnovano le aspettative sulle potenzialità produttive del territorio.
Un approccio di rottura al progetto locale, in Medio Oriente: non in continuità con i manufatti della tradizione, ma utilizzando il know how degli artigiani del posto per proiettare il territorio verso prodotti nuovi e persino estranei alla sua identità. Lanciato a Betlemme nel 2011, Local Industries è un piccolo marchio di arredi che produce sedute in tondino di ferro caratterizzate da uno spiccato gusto grafico fatto di linee spezzate e colori pop. I suoi fondatori, Elias e Yousef Anastas, sono tra i soci dell’omonimo studio di architettura AAU Anastas e tra Betlemme e Parigi, sedi dei loro uffici, coordinano un’attività di ricerca che senza soluzione di continuità indaga la pratica architettonica su ogni scala, dalla progettazione di edifici, alla realizzazione di installazioni site specific realizzate con la tecnica della stereotomia (l’ultima commissionata dal Victoria&Albert Museum per il London Design Festival), fino alla concezione di nuovi pezzi di arredo di concerto con un network di artigiani rigorosamente di Betlemme. Li abbiamo incontrati per approfondire la loro visione sulla pratica del “locale” e su come questa si possa trasformare in un’opzione di rilancio e innovazione.
Giulia Zappa: La vostra attività di editori di design scaturisce dal vostro lavoro di architetti. Come siete approdati alla produzione di mobili? Che continuità esiste tra questi due ambiti di ricerca?
Youssef Anastas: Local Industries ha preso avvio da uno dei nostri progetti di architettura, il Conservatorio Edward Said di Beit Sahour. Ultimato l’edificio, non era rimasto più budget per gli arredi e i committenti avevano preso in considerazione l’ipotesi di utilizzare dei vecchi mobili o di comprarne di nuovi in Turchia. Noi abbiamo insistito per lavorare con gli artigiani locali che già erano stati coinvolti nella realizzazione del conservatorio. Col tempo, il nostro network di collaboratori si è affinato e la produzione di Local Industries si è emancipata dal progetto iniziale da cui era scaturita, sebbene il dialogo in scala come il nostro lavoro di architetti sia sempre in divenire.
Giulia Zappa: Il materiale di elezione di Local Industries è il tondino di ferro. Eppure, la tradizione artigianale locale, legata da cinque secoli alla produzione di artefatti religiosi, si confronta principalmente con materiali quali l’ulivo e la madreperla. A cosa si deve questa scelta di rottura?
Youssef Anastas: I nostri mobili potrebbero essere prodotti ovunque, eppure noi li abbiamo progettati pensando allo specifico contesto locale: a Betlemme esiste una vecchia fabbrica che nel passato produceva letti per l’esercito giordano e, successivamente, arredi per le scuole in Palestina. Un piccolo nucleo dei suoi operai sono ancora attivi e li abbiamo coinvolti per la produzione di Local Industries. Ecco il nostro approccio all’essere local.
Elias Anastas: Soprattutto da queste parti, l’idea di lavorare con gli artigiani locali è sempre percepita come una maniera romantica di riprodurre qualcosa che veniva già fatto in passato. Noi siamo molto più interessati a estrarre il know how degli artigiani per poi proiettarli verso oggetti inaspettati e dare vita a conversazioni che rinnovino il loro modo di pensare.
Giulia Zappa: L’esito formale dei vostri prodotti sembra alieno al gusto arabo mainstream. Come rispondono gli artigiani alle vostre richieste? E quale la reazione del pubblico?
Elias Anastas: Lavorare con gli artigiani è stimolante perché condividono il nostro spirito di sfida. Certamente non sono mancate le perplessità: qui siamo abituati a spazi domestici ampi e a mobili ingombranti, mentre i pezzi di Local Industries non “riempiono” facilmente lo spazio. Eppure la mentalità sta cambiando. Sebbene Local Industries sia stata fondata nel 2011, abbiamo esposto per la prima volta in Palestina soltanto lo scorso maggio. Il riscontro è stato positivo, sia in termini commerciali, sia per quello che riguarda il dibattito su cosa sia possibile produrre qui, oggi.
Giulia Zappa: La continuità con la cultura locale è spesso invocata, non senza retorica, come valore aggiunto per il rinnovamento del design contemporaneo. Come evitare che il legame con la tradizione scada in un cliché?
Elias Anastas: Ci è stato chiesto in più occasioni di disegnare qualcosa che rifletta simbolicamente la Palestina, ma noi crediamo che sfruttare la specifica situazione geopolitica sia un approccio facile ma allo stesso tempo debole, così come l’orientalizzazione a tutti i costi diventi alla lunga stancante.
Yousef Anastas: Lavorando come architetti e designer su differente scala, è interessante andare oltre una maniera folkloristica e nostalgica di avere a che fare con i materiali. Crediamo che la città in cui vivi rifletta anche il tipo di sedia che scegli per casa tua, e viceversa. Riuscire a lavorare con il nostro network di artigiani ci permette di generare una nuova morfologia.
Giulia Zappa: Local Industries produce quasi esclusivamente sedute. Perché avete scelto di confrontarvi con questa specifica tipologia progettuale?
Yousef Anastas: Quando metti insieme due sedie in uno spazio, contribuisci immediatamente a definirlo, a modificarne l’aspetto.
Elias Anastas: Facciamo le sedie perché rappresentano l’oggetto di design più complesso nonché altamente funzionale. Detto questo, ci piacerebbe abbracciare anche altre tipologie e stiamo lavorando a una nuova collezione in edizione limitata per il 2018. L’idea è quella di coinvolgere altri designer attivi in Medio Oriente, invitarli a Betlemme e fargli progettare dei pezzi che abbiano sempre il know-how degli artigiani locali come punto di partenza, ma che possano beneficiare di questo sguardo allargato, dando vita a iniziative comuni.
Giulia Zappa: Siete appena tornati da Londra, dove avete appena presentato “While We Wait”, un’installazione commissionata dal Victoria&Albert Museum per il London Design Festival.
Elias Anastas: Ogni anno il V&A commissiona a tre designer una installazione site specific negli spazi del museo. Noi abbiamo presentato una ricerca che stiamo portando avanti da qualche tempo sulla stereotomia, l’arte di tagliare le pietre per creare una struttura autoportante. La Palestina ha una tradizione antichissima di lavorazione della pietra che risale ai tempi dell’Impero ottomano, quando la pietra veniva utilizzata come materiale di costruzione privilegiato, mentre adesso il suo uso è diventato perverso, limitato al solo aspetto decorativo sotto forma di rivestimento nelle facciate. Per questo vogliamo continuare la nostra sperimentazione, trasformando “While We Wait” in un’installazione permanente da collocare nella valle di Cremisan, tra Betlemme e Gerusalemme, in continuità con il suo paesaggio d’origine.
Pubblicato su Domusweb il 13 ottobre 2017. Tutti i diritti riservati.