Oggi, lunedì 30 giugno, il piazzale del Maxxi ospita la performance “Kentridge Live on the Tiber”, esito di un workshop che ha coinvolto l’artista sudafricano insieme a numerosi musicisti della scena romana guidati dal compositore Philip Miller. Obiettivo? Mettere a punto linguaggi visivi e sonorità di “Triumphs and Laments”, l’opera site specific che Kentridge ambienterà sui muraglioni del Tevere. Un fregio contemporaneo creato attraverso una tecnica non invasiva e reversibile – la pulizia di strati di sporco sulle mura – che promette di regalare un punto di vista inedito sulle grandezze e le sconfitte nella storia millenaria della Città Eterna.
Abbiamo incontrato William Kentridge (Johannesburg, 1955), accompagnato dalla fondatrice dell’associazione Tevereterno Kristin Jones, direttrice artistica del progetto, per esplorare la dimensione in progress del lavoro e per scoprire se le resistenze istituzionali alla sua realizzazione sono state superate. In attesa che, dopo questa prima fase di sperimentazione, Triumphs and Laments, venga ufficialmente presentato il prossimo 12 settembre.
Tevereterno è il sogno di una piazza d’acqua nel cuore di Roma: sotto quale impulso è nato il progetto e quali istanze sta portando avanti?
Kristin Jones: È cominciato nella mia testa nel 1983 quando, giunta a Roma con una borsa Fulbright per scoprire la meraviglia della sua architettura e della sua arte, ho scoperto questa sezione assolutamente dritta del Tevere che sembra un ready made e che poteva trasformarsi in luogo molto suggestivo per l’arte contemporanea. Ad oggi, la missione di Tevereterno è quella di incoraggiare le autorità a comprendere quanto questo spazio per grandi eventi non sia rivolto solo a grandi artisti contemporanei, ma possa incoraggiare anche la cultura locale, questo grazie a una serie di programmi, un comitato scientifico, e progetti differenti come una Biennale da tenersi nello straordinario padiglione d’acqua che è questo sito. Così, per il futuro, pensiamo alla presenza di diversi curatori, progetti, borse di studio.
Tra le proposte di arte pubblica che Tevereterno ha in cantiere, la realizzazione del suo Triumphs and Laments è senz’altro il lavoro più imponente. Tra celebrazioni e disfatte, quale visione epica vuole sottolineare il suo lavoro?
William Kentridge: Non so quale sarà la sua espressione finale, ma credo che riguarderà questo intrecciarsi di trionfi e disastri, partendo dall’ovvio presupposto che il trionfo di qualcuno sia anche il disastro di qualcun altro. Dal mio punto di vista, lo sforzo è quello di trovare un linguaggio visivo che esprima questa combinazione di trionfi e lamenti, il senso di una città che rappresenta essa stessa il trionfo, e come la sua architettura ne conservi le tracce. Inoltre sono interessato alle ombre, a cosa si nasconde sotto la superficie, a mettere insieme tutti questi livelli e trasformarli in un nuovo lavoro di arte contemporanea. Generalmente guardo ai materiali storici, agli archivi, alle sculture, ai dipinti, che mi restituiscono la storia millenaria della città.
Dopo le prime prove tecniche, in questi giorni è impegnato insieme al musicista Philip Meier in un workshop per un progetto site specific. Vuol dire che, a dispetto delle resistenze burocratiche, l’opera finalmente si farà?
W. K.: Triumphs and Laments implica livelli diversi di realizzazione. Quella finale che speriamo di raggiungere sarà ottenuta attraverso la pulizia di questi strati di sporco dai muraglioni del Tevere, ma esiste già concretamente in forma di disegno, collage, materia fisica. È iniziato come un progetto visivo nel tentativo di sperimentare diverse modalità di visualizzazione, ma è cominciato anche attraverso le conversazioni come questa intervista o altri articoli, come anche nelle domande che sono scaturite prima ancora che il progetto iniziasse concretamente. Cosa vuol dire portare arte contemporanea in questo sito? È interessante notare che la conversazione cominci prima ancora che il lavoro sia fatto.
Che opposizione culturale ha incontrato il progetto? Molte autorità istituzionali non vedono di buon occhio l’idea di avere un pezzo d’arte contemporanea nel centro storico di Roma.
W. K.: Capisco che nelle vecchie città, dove c’è un enorme patrimonio storico come Firenze o Atene, ci siano persone che dicono: “Abbiamo già la nostra arte, non ci serve niente di nuovo, ci basta il Partenone e non abbiamo bisogno di nient’altro”. Ma le città interessanti, e penso che Roma sia una di queste, sono quelle che hanno un senso plurale della storia, sia essa classica, medievale, barocca e contemporanea. Non si tratta di una città-museo come Venezia, anche se – per quanto Venezia sia rimasta una città immobile per cinque secoli -capisce tuttora qual è il ruolo che la contemporaneità esercita sulla città attraverso la cultura. Dal mio punto di vista, comunque, è importante che il progetto sia effimero sul lungo periodo: non c’è nessun Mosè rimarrà per secoli e secoli. Questo perché Triumphs and Laments sarà corroso dall’inquinamento e scomparirà progressivamente nel tempo. Diventando così un commento sulla città, una maniera di guardare alla storia ma non un commento definitivo. La pluralità di attitudini verso questo progetto, le differenti persone coinvolte fanno sì che Triumphs and Laments non sia qui per dire “questa è la storia”, quanto piuttosto questa è la mia opinione su Giordano Bruno o Giorgiana Masi. C’è una pluralità di elementi che si possono affacciare al progetto, ma senza dire “qui devi provare vergogna, qui tristezza, qui gioia”. Sicuramente ci sono dei momenti di estasi ovvi, come per Santa Rita, o per Marcello Mastroianni e Anita Eckberg nella Fontana di Trevi, un facile trionfo celebrativo dell’immagine e dello spirito. Allo stesso tempo, però, c’è un recupero della tradizione propria dell’arte classica romana di ritrarre prigionieri, sconfitti, barbari battuti. Prendere tutte queste immagini è come srotolare la Colonna Traiana, rendendola piatta e guardando alla storia che racconta da duemila anni.
Ha menzionato il fatto che Triumphs and Laments è un progetto destinato a scomparire: progressivamente, infatti, una patina di smog ricoprirà i fregi. Una metafora del potere beffardo del tempo? O un paradosso della Città Eterna?
W. K.: Sì, è detta eterna, ma se pensiamo ai suoi monumenti capiamo bene quanto il concetto di eternità sia relativo. Ad esempio, se guardiamo ai frammenti provenienti dai monumenti classici, vediamo quanto siano stati corrosi dalla pioggia acida, o come si siano sbriciolati, o come siano stati oggetto di vandalismo. La comprensione della storia, dunque, è iscritta nella materia, e ci sono alcuni ambiti in cui la materia è stata dimenticata: la gamba di una persona manca, il naso di una scultura andato. Per questo penso che la cosa più interessante nel progetto sia il mix di immagini che vengono dal passato accompagnate dalle tracce della propria memoria, e quanto la maniera di lavorarci abbia di conseguenza a che fare con il modo di funzionare della nostra memoria.
A cosa avete lavorato durante il workshop? Cosa vedremo oggi e il 12 settembre?
W. K.: A Roma c’è un team di persone, storici, storici dell’arte, archeologi che hanno messo insieme un sacco di materiale proveniente da diverse fonti, alcune ovvie come la scultura di Marco Aurelio in Campidoglio, e altre meno ovvie, ad esempio dagli archivi medievali. Innanzitutto, dunque, ho avuto l’opportunità di incontrare queste persone, vedere come lavorano e mostrargli cosa avevo intenzione di fare con i loro reperti. Quindi ho lavorato con il compositore Philip Miller e un gruppo di musicisti locali per sperimentare la possibilità di accompagnare il progetto con una dimensione musicale, un concerto. Così la maggior parte del nostro tempo è stato impiegato per improvvisare, ascoltare pezzi differenti di musica e vedere spezzoni dai miei film. La performance al Maxxi restituirà l’idea di come questi elementi possono lavorare insieme.
K. J.: Abbiamo invitato dei musicisti che suonano musica tradizionale e Philip sta scoprendo qual è il loro repertorio.
Si tratta di musica folk?
W. K.: Abbraccia la musica di strada e vecchi repertori musicali. L’idea è che la musica popolare ha radici antiche di millenni, che risalgono ad esempio alla musica dionisiaca presente ancora oggi in una tarantella come nella musica contemporanea. Anche se le radici musicali sono molteplici…
K. J.: … e sono vive a Roma oggi, impattandone positivamente la vitalità. Così la musica comincia a partire da qualcosa che si suona normalmente e che evolve verso qualcosa che non conosciamo. Il bello è che c’è tutto questo talento e che lavorarci è realmente straordinario. Per quello che mi riguarda, mi sono sempre interessata ai progetti site specific, così è stato fantastico osservare come questa musica rallentava, si abbassava, e a volte prendeva una nuova forma che non era del tutto riconoscibile. Non è solo il lavoro con le immagini del passato a poter essere reimmaginato.
Roma, si legge sul sito di Tevereterno, è una città “diversa”. Oltre i cliché, o forse proprio a partire dai cliché, dove risiede dal suo punto di vista l’origine di tale peculiarità?
W. K.Per esempio, non so se si tratti di un cliché, ma un cavallo che traina una biga, che possiamo considerare un cliché della Roma eroica, un eroe combattente sulla biga, è l’emblema di un trionfo che è possibile scomporre nei suoi componenti e poi riassemblare. Per me a volte si tratta di un’operazione letterale. Prendi qualcuno che porta le spoglie e pensa alle immagini contemporanee che significano portare il trionfo sulle tue spalle: un’apertura a cosa un’immagine possa diventare e quale sia la sua attitudine. Non mi preoccupa partire da immagini molto familiari, facilmente riconoscibili, come le statue di Garibaldi e di sua moglie con la pistola in mano che si trovano nei dintorni dell’American Academy: tutti e due hanno quest’aria iconica e allo stesso tempo una componente che può essere dimenticata, cambiata. Si potrebbe fare un’intera processione di uomini a cavallo, che include anche solo Marco Aurelio e tutti quelli che hanno copiato Marco Aurelio.
Questa settimana ha inaugurato al Maxxi una grande retrospettiva sul designer e artista italiano Gaetano Pesce, il quale vive da decenni negli Stati Uniti pur mantenendo un legame molto intenso con il suo Paese di origine. Le giro una domanda che ho rivolto a Pesce: quale paradigma racconta meglio l’Italia di oggi vista dall’estero, l’Italia come Fundamentals della Biennale di Koolhaas o la Grande Bellezza di Sorrentino? Quali le risonanze con la visione di Triumphs and Laments?
W. K.: Penso che uno dei paradigmi che descrive meglio l’Italia sia la virtualità dei suoi progetti, le conversazioni sul progetto che iniziano prima che il progetto stesso sia effettivamente cominciato. Così, si potrebbe immaginare una versione de La Grande Bellezza dove una sequenza diventa una processione di prodotti che sfilano con i propri loghi sui muraglioni del Tevere, trasformato in uno spazio messo in vendita. Penso che la cosa più eccitante per me non sia descrivere il progetto nella sua forma finale, né pensarlo in forma di paradigma, quanto chiedersi se sia possibile in quest’epoca austera lavorare con questa storia visuale, o se ciò si dimostri impossibile fino a che il progetto non diventa qualcosa di completamente commerciale, oppure se è impossibile perché questa vecchia storia di umiliazione e dolore esprime ancora troppi rimorsi. Cosa possono mostrare le immagini? Possono ancora provocare? In Sudafrica possiamo rappresentare ciò che vogliamo, possiamo rappresentare la polizia in azione, possiamo mostrare immagini del passato. Certo alcuni si potrebbero offendere, ma a volte offendere la gente va bene: non bisogna spaventarsi della possibilità di offendere. C’è da chiedersi però quando queste immagini possano diventare fondamentali. A volte la gente dice semplicemente: “No. Lascia che il mio villaggio resti piccolo, sempre più piccolo”. Se così fosse a Roma, la città tornerebbe a essere quella che era nel Medioevo.
K. J.: Per me questo riguarda il valore intrinseco di questo sito. Puoi invitare persone dall’Italia, dall’Europa e dal mondo per prendere la città come una fonte di ispirazione e per fare una lavoro che ritorni a questo luogo. Ci sono 39 accademie straniere a Roma: tutti vengono per cercare ispirazione. Questo sito, Piazza Tevere, è un luogo dove le cose possono essere riconsiderate e restituite con progetti che la esaltino ogni volta. Così, quello che stiamo facendo durante questi workshop è veramente eccitante, vedere il discorso che può scaturire sulla città e come questo discorso sia una materia molto viva. È eccitante vedere questo materiale prendere forma e come questa forma non sia assoluta.
A Roma è un habitué. Come passa il suo tempo nella capitale?
W. K.: Roma è il primo posto fuori dal Sudafrica che ho visitato quando ero bambino. Mi risuona ancora l’eco della meraviglia che ho provato per la sua antichità straordinaria affiancata dalla pazzia del suo traffico e dei suoi affari. Mi dispiace essere molto ovvio, ma il Pantheon è un luogo magico dove mi piace sempre tornare. È una sorta di fondamentale.
Pubblicato su Artribune.com il 30 giugno 2014