Conserve, la Jerusalem Design Week all’insegna di una conservazione radicale

Preservare un’identità come atto di coraggioso radicalismo. È la tesi da cui si dipana l’ultima Jerusalem Design Week, lo showcase del design israeliano che rifiuta il ruolo di vetrina per favorire, almeno per una settimana all’anno, la creazione di progetti di ricerca.

La conservazione come espressione di un’attitudine radicale al cambiamento: è la tesi, controintuitiva e controcorrente, che ha guidato l’edizione appena conclusasi della Jerusalem Design Week (a cura di Tal Erez e Anat Safran), manifestazione di punta del design israeliano giunta quest’anno alla sua terza edizione internazionale. Interamente finanziata con fondi pubblici, se si escludono i contributi degli sponsor tecnici, la settimana del design di Gerusalemme continua a rappresentare una formula inedita nello scenario mediorientale (e non solo) grazie alla capacità di articolare una proposta centrata non tanto sulle produzioni industriali o di nicchia del design locale, quanto sulla presentazione di lavori inediti, per lo più sviluppati su commissione. Controintuitiva e controcorrente, dicevamo, eppure in linea con la dimensione antropologica del suo territorio di riferimento: nel paese in cui la narrazione collettiva si è fatta un vanto della capacità di far fiorire nientemeno che il deserto, l’audacia nell’elaborare soluzioni imprevedibili nella sfida per la conservazione assume più che altrove una valenza concreta e uno spunto di interesse.

Conserve – Jerusalem Design Week 2018

GLI OMAGGI
Senza tributi nostalgici ad una storia che non si può cristallizzare, ma solo ripercorrere con la consapevolezza di quanto gli accadimenti siano sempre il frutto di una mediazione (se non di rocamboleschi interventi a gamba tesa), la Jerusalem Design Week ha declinato il senso di questa identità in divenire tra le sue differenti sezioni. Alcune, inevitabilmente, hanno fatto della storia cittadina il fulcro del proprio racconto: è il caso di “Pro Jerusalem 100 years of preservation” (a cura di Alexandra Topaz, Hadar Porat, Keren Kinberg), mostra dedicata alla rappresentazione di Gerusalemme e al ruolo chiave giocato dal protettorato britannico nel definirne l’identità visiva. Un’estetica, quella della città tre volte santa, che contro le aspettative più scontate legate ad un eterno immobilismo si rinnova nei progetti sviluppati dai designer (Oded Ben Yehuda, Grotesca Design, Rami Tareef, Ofri Lifshitz Zifroni, Magenta Workshop, Major Major Major Studio, Eliad Michli e Avior Zada), i quali usano la pietra e la ceramica per rivisitare arredo urbano, gadget e artefatti decorativi o anche i semplici simboli del suo immaginario (i palloncini di Factory of Gold di Guy Königstein). Globale e improntata all’indagine speculativa è invece l’esposizione principale, “The Human Conservation Project” (a cura di Tal Erez e Anat Safran), volta ad indagare gli scenari di un futuro in cui la nostra dimensione corporea e le nostre relazioni di prossimità vengono messe in crisi dall’evoluzione del mondo e dalla sua sublimazione nella realtà virtuale.

Conserve – Jerusalem Design Week 2018

I PROGETTI
Le molteplici visioni in mostra alimentano un sentimento a metà strada tra l’inquietudine e uno stato di sospensione epicurea: la spa in cui una macchina dell’abbraccio ci infonde un benessere meccanico (Future Day Spa, di Lucy McRae), l’applicazione machine-learning in cui uno specchio riflette il nostro viso confuso con quello di tutti i visitatori della mostra (Selective Reflection Mind, di Gal Sasson), le macchine per una mente migrata su cloud che vuole rivivere sensazioni fisiche (Nostalgia-Posthuman, di Elior Karmani e Johanna Pichlbauer), come anche la successione di ologrammi dei nostri stati energetici (Breaded Escalope, di Noga Shimshon) sono tutti progetti che sembrano confermare quanto la conservazione della specie umana abbia poco a che vedere con i cliché di un ritorno ad un passato idealizzato, ad una ricongiunzione ideale con un presunto stato di natura. Contemplare questo orizzonte conturbante e un po’ straniante aiuta a convincerci della radicalità insita nel nostro desiderio di conservazione. Sorge però un sospetto: cambiare pelle in maniera così radicale non finirà per sovvertire in maniera irriconoscibile il mondo i cui viviamo, la nostra stessa ontologia? Riusciremo a riconoscerci dopo questo sforzo radicale per rimanere vivi? Un bello spunto su cui riflettere, soprattutto per una design week.

Pubblicato su Artribune.com il 24 giugno 2018