Design vegano. La missione radicale di Erez Nevi Pana

Eliminare l’uso di tutti i materiali che contengono componenti animali. È questa la missione (quasi) impossibile di Erez Nevi Pana che, ispirato dal desiderio di rendere il design più giusto, ripensa le modalità di produzione di arredi e artefatti. Scoprendo che l’etica è un ottimo apripista non solo per nuovi concetti, ma anche per risultati formali imprevedibili e accattivanti.

Nella rivendicazione incessante – e peraltro spesso disattesa nei fatti – di un presupposto di sostenibilità nei tanti prodotti presentati al Salone del Mobile, imbattersi in un progetto che si autodefinisce “vegano” costituisce un motivo di sorpresa, finanche, non neghiamolo, di sottile incredulità. “Design vegano”: a chi sarà venuta in mente questa nuova, accattivante buzzword, e cosa vorrà dire esattamente? E ancora: a fronte delle enormi sfide che la nostra società sta affrontando a livello globale per rispondere alle emergenze ambientali, è proprio necessario fare dell’assenza di componenti animali in un materiale il fattore prioritario attraverso il quale innescare il ciclo di vita di un prodotto? Una mostra prodotta da 5vie art+design con la curatela di Maria Cristina Didero, Vegan Design – Or the Art of Reduction, tenta di mettere a fuoco una possibile lettura del problema, presentando l’opera del giovane designer israeliano Erez Nevi Pana, per la prima volta sotto i riflettori del grande pubblico internazionale del Salone.

Erez Nevi Pana

UNO CHOC CATARTICO
Classe 1983, un master ad Eindhoven, oggi fiero cittadino del mondo con progetti sparsi tra l’India, l’Austria e il suo Paese natale, Nevi Pana rivendica con grandissimo rigore etico la necessità di un tentativo progettuale che è scaturito da una scottante esperienza personale. Uno choc catartico, quello che ha condiviso con Artribune: “Sono diventato vegano cinque anni fa, quando ho assistito al rapimento di un capretto appena nato dalla sua mamma. L’impotenza della madre che correva dietro all’uomo che le aveva preso il figlio mi ha semplicemente ucciso, facendomi rendere conto delle atrocità che noi finanziamo e della sofferenza che infliggiamo agli animali per soddisfare il nostro palato. Qualche settimana dopo, stavo tessendo un tappeto nel mio studio di Eindhoven e ho realizzato che dovevo cambiare i materiali che stavo utilizzando per ottenere un’espressione in linea con i miei valori. A partire da quel momento, mi sono gettato a capofitto nel trovare il bandolo della matassa che lega la moralità alla materia”.
Un bandolo, dunque, che impone innanzitutto una vera e propria “dieta” rispetto al ventaglio di materiali a cui i designer fanno generalmente ricorso. “Il legno è vegano”, ci spiega ancora Nevi Pana, “ma una sedia di legno non è necessariamente vegana perché la colla e la carta vetrata sono composte entrambe da ingredienti animali”. La lista dei materiali e delle componenti proibite diventa quindi insospettabilmente lunga: pensiamo solo alla lana, alla pelle, alla vernice, alla plastica e alle resine, ma anche ai guanti di gomma utilizzati per lavorare.

Erez Nevi Pana-Dead Sea

NUOVE SOLUZIONI
Come superare, allora, l’impasse creata da questo regime di ristrettezza? Il primo, imprevisto scarto d’ingegno a cui fare ricorso, Nevi Pana l’ha individuato nel genius loci del proprio Paese, e in particolare in quel Mar Morto che forse più di ogni altro elemento geografico caratterizza l’unicità di questa terra a Levante. Nel ciclo Salt, che vediamo esposto in questi giorni allo Spazio Sanremo, alcuni sgabelli in legno mostrano l’esito di un particolarissimo processo di cristallizzazione. Assemblati con una speciale colla vegana, formula elaborata dallo stesso Nevi Pana, e quindi bloccati ai fondali del Mar Morto, si sono impregnati di quel sale che impedisce la creazione di qualsiasi forma di vita, generando sul legno incrostazioni dalla forma imprevedibile che conferiscono all’oggetto una dimensione di nuovo primitivismo, in linea con la componente mistica del territorio dal quale provengono. Ancora, i cestini della collezione Wasted, realizzati in India sulla falsariga delle pratiche locali di recupero degli scarti, sono realizzati con materiali poveri quali bambù e semi, mentre le sete di Peace Silk sono tessute a partire da bozzoli che vengono raccolti solo dopo che le farfalle li hanno liberamente abbandonati.

Erez Nevi Pana-Isolating

NUOVE POSSIBILITÀ
Un’opportunità, quella della riduzione che il titolo della mostra invoca, ben colta da Maria Cristina Didero, la quale già al primo incontro con Nevi Pana aveva intuito il grande potenziale insito nella radicalità con cui Nevi Pana riorganizza le proprie strategie di problem solving, aprendosi a esiti imprevedibili e non scontati. Ci racconta: “Ho conosciuto Erez due anni fa a Tel Aviv. Ho condiviso con lui un mio progetto – per il quale sto tuttora facendo ricerca – sulle abitazioni e gli interni degli ebrei ultraortodossi, i Hasidim. Erez era molto stupito del mio interesse in merito a questo argomento. Era timido, riservato e solo dopo qualche ora mi ha confessato che faceva il designer, e allora gli ho chiesto di più. Seduti al bar, ho ordinato un hamburger, con leggerezza ovviamente. Così lui mi ha detto di essere vegano. Ho poi scoperto il suo approccio totalizzante al mondo del progetto. Sono stata affascinata dal suo pensiero e dal modo in cui lo applica alle cose di tutti i giorni oltre, appunto, al suo lavoro. Ho finito di mangiare il mio hamburger e abbiamo iniziato a lavorare insieme”.
Un processo di liberazione dalla carne, quello dunque invocato da Nevi Pana? Certamente, anche se sembrerebbe riduttivo limitare l’impatto della sua proposta a questa pur rispettabilissima componente etica. A rendere il progetto più risonante c’è innanzitutto il potenziale di una ricerca che, attraverso la costruzione puntuale di un nuovo dizionario delle possibilità di produzione, ha tutte le carte in regola per legare l’esistenza di vincoli alla generazione di nuove occasioni di espressione. Riscattando gli esiti formali assai poveri degli artefatti alternativi di cui si vanta spesso la cultura ambientalista, e trasformando la testardaggine di un designer in un nuovo meccanismo di seduzione.

Pubblicato su Artribune Magazine #42 ‒ Speciale Design e su Artribune.com il 16 aprile 2018