Designs of the Year 2015. A Londra gli Oscar del progetto sbalorditivo

“And the winner is…”. A prendersi l’onere e l’onore di vagliare cosa, nel campo del progetto, ha davvero fatto la differenza nell’arco di un’annualità è il Design Museum di Londra. Un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, trattandosi della principale istituzione museale che in Gran Bretagna cataloga, colleziona e arrischia previsioni sullo stato di una disciplina tra le più instabili. E che, non contenta, conferisce nomination per la più importante competizione d’oltremanica e non solo.
Nato otto anni fa, Designs of the Year è innanzitutto un premio internazionale, aperto cioè ai progetti di tutto il mondo, senza una specifica visione stato-centrica a fare da filtro come succede al nostro Compasso d’Oro. Ed è proprio questo grado di innato cosmopolitismo – poteva succedere qualcosa di diverso in una città globale come Londra? – a dare in prima battuta quel senso di ampio respiro, di cambiamento, di vetrina sull’innovazione che costituisce il maggior grado di attrattiva esercitato dal riconoscimento.

Articolato in sei sezioni differenti – architettura, digitale, moda, prodotto, grafica e trasporto – il Designs of the Year scandaglia oltre duecento progetti individuati da una giuria di esperti per un totale di 76 nominati nel 2015 e sei vincitori che verranno comunicati nel corso dell’anno. Chiarissima la missione, almeno sulla carta: premiare i lavori in grado di “favorire il cambiamento, abilitare l’accesso, allargare la pratica del design o catturare lo spirito dell’anno”, come recita lo statuto. Un’idea di buon design, saldamente ancorata alle prerogative di progresso sociale che fanno parte della migliore tradizione del progetto novecentesco.

Eppure, la selezione del 2015 colpisce più per una sorta di “wow effect”, di sensazionalismo iperbolico, che per l’adesione cieca alla missione del concorso. E non si tratta solo della polemica per il gigantismo fuori contesto toccata l’anno scorso al Heydar Aliyev Center di Zaha Hadid a Baku, vincitore per la sezione architettura, e che quest’anno rischia di ricadere sulla novella Fondation Vuitton di Gehry a Parigi. Piuttosto, il gusto per la sorpresa sembra coinvolgere scenari dal sapore futuribile e proiettarci in un mondo a venire ancora “prototipale”. Basta una piccola carrellata tra le nomination per farsene un’idea. Tra cartelloni pubblicitari in grado di assorbire più CO2 di quanto farebbero 1.200 alberi (succede in Perù con Air-purifying billboard realizzato dal Politecnico UTET), auto che si guidano da sole (Google self-driving car), visualizzazione di bioingegneria applicata al paesaggio (Designing for the Sixth Extinction di Alexandra Daisy Ginsberg), la carica di innovazione sembra non aver niente a che vedere con il nostro orizzonte quotidiano.
Certo, non mancano progetti di design sociale vero e proprio – come Project Daniel, fab lab in Sudan per protesi stampate in 3d, o The Ocean Cleanup, campagna per la raccolta della plastica negli oceani – ma come se si trattasse di un Oscar le buone cause si mescolano a prospettive piene di stupore. Suggerendoci che la vittoria risiede in un mix ponderato di giustizia sociale e dimensione sbalorditiva.

E il design del mobile? Marginale. O forse dovremmo dire: residuale. In questo mare magnum di nominati e buone intenzioni, l’arredo in serie si porta a casa soltanto un paio di riconoscimenti, uno dei quali conquistato – ci fa piacere dirlo – dal nostro Odoardo Fioravanti (Dragonfly per Segis). Suggerendo che il futuro dell’industria passerà ancora da tantissimi buoni prodotti, ma che quello della ricerca sarà sempre più legato da innovazione tecnologica e applicazioni fuori dagli schemi.

Londra // fino al 23 agosto 2015
Designs of the Year 2015
DESIGN MUSEUM
Shad Thames
+44 (0)20 74036933
www.designmuseum.org

Pubblicato su Artribune.com il 28 marzo 2015