Emotività e progettazione. Reportage dalla London Design Biennale 2018

Fino al 23 settembre, alla Somerset House, quaranta installazioni rileggono il tema “Emotional States”. Proiettandovi desideri, angosce e memorie del nostro presente.

Nel turbinio di eventi che, dopo la lunga stasi estiva, segnano l’incalzante ripresa del calendario del design, the place to be del settembre 2018 si conferma, in maniera quasi indiscussa, la capitale inglese. Pochi mesi prima di consumare quello che, salvo smentite, si preannuncia come il primo, doloroso divorzio dal matrimonio europeo – un divorzio che, ricordiamo, i designer britannici hanno scongiurato prima del referendum sulla Brexit e, successivamente all’esito del voto, con operazioni di lobbying per favorire l’estensione dei visti di lavoro ai tanti stranieri impiegati nel settore ‒, Londra chiama a raccolta le rappresentanze di quaranta Paesi per affiancare al programma della sua storica design week, il London Design Festival, un format complementare dalle grandi ambizioni culturali: la London Design Biennale. Allestite ancora una volta negli spazi suntuosi della Somerset House, che aveva già segnato l’esordio della manifestazione nel 2016, le quaranta installazioni sono chiamate a declinare il tema “Emotional States”, scelto dai curatori capitanati dal direttore della Biennale Christopher Turner per raccontare quanto il design, sdoganato il vincolo funzionalista delle origini, sia un veicolo per esaltare e ripensare anche il nostro vissuto emotivo.

London Design Biennale 2018. Saudi Arabia Lilwah-Al Hamoud. Photo Ed Reeve

UN TEMA CATCHY
Non stupisce, pertanto, che l’eterogeneità delle proposte sembri in qualche modo rispondere alla vastità e alla trasversalità di un tema quanto mai catchy, capace di fare da ponte tra istanze di riflessione personale, proiezioni collettive e memorie storiche che identificano trascorsi nazionali specifici. A quest’ultima categoria appartiene Modernist Indignation, l’installazione presentata dall’Egitto (a cura di Mohamed Elshahed) che si è aggiudicata il più alto riconoscimento della manifestazione, la London Design Biennale 2018 Medal. Il lavoro ripercorre la prospettiva e i progetti di Al Emara, il primo magazine di design del mondo arabo, che nei due decenni della sua pubblicazione (dal 1939 al 1959) ha rappresentato l’avanguardia della cultura architettonica modernista nel Paese. Uno sguardo alla memoria collettiva lo offre anche A Matter of Things (a cura di Małgorzata Wesołowska), l’installazione polacca – insignita della Medaglia d’Onore – che tratteggia cento anni di storia del Paese attraverso dieci oggetti che ne hanno segnato la quotidianità. Guarda pragmaticamente al futuro, invece, il padiglione dell’Olanda, che allestisce una inaspettata camera idroponica per coltivare verdura: una via concreta e tangibile, suggerisce il designer del progetto Marjan van Aubel, per dare speranza e superare l’angoscia da sovrappopolamento, visto che questa soluzione permette di risparmiare il 90% d’acqua rispetto all’irrigazione dei campi e garantisce una resa quaranta volte superiore grazie all’utilizzo di una illuminazione colorata a LED.

London Design Biennal 2018. Vietnam University of Leicester. Photo Ed Reeve

DALLA LETTONIA ALL’ITALIA
Ancora, installazioni di carattere esperienziale cercano una risposta emotiva immediata, legata a una sollecitazione fisica e all’esplorazione della reazione che ne scaturisce. Nel cortile d’onore della Somerset House, la Grecia allestisce un’installazione cinetica che risponde ai passi di chi la attraversa (di Studio INI) per rievocare l’esistenza di un megafono metaforico attraverso il quale esprimere il proprio disaccordo e la propria disobbedienza. Su questa linea, la Lettonia, con Matter to Matter (London Design Biennale 2018 Best Design Medal), progettata da Arthur Analts di Variant Studio, prende spunto dall’umidità che caratterizza il clima del Paese e propone una vetrata la cui condensa diventa una superficie su cui scrivere i propri messaggi, meditando sulla propria interiorità. Sempre sulla meditazione e il raccoglimento scommette il Libano, la cui Silent Room (un progetto di Nathalie Harb in collaborazione con BÜF e 21dB) offre uno spazio votato al silenzio, per contrastare gli effetti dell’inquinamento acustico che affliggono notoriamente la città mediorientale. Non mancano infine i richiami al presente e alle questioni geopolitiche che affliggono aree e minoranze scosse da guerre e conflitti. Con Maps of Defiance, il Regno Unito si avvale dei software di architettura forense per indagare le distruzioni dello Stato Islamico nella regione irachena dello Sinjar. Agli esuli e ai migranti è poi dedicato il Refugees’ Pavilion, che tra testimonianza e resilienza allestisce un ricovero temporaneo arredato da alcuni oggetti progettati dagli stessi rifugiati.
E l’Italia? Il nostro Paese sceglie una via ancora diversa, capace di rinunciare alla spettacolarità per un approfondimento meno prevedibile e dotato di grande eleganza. È il caso de L’Architettura degli Alberi, retrospettiva curata da La Triennale sulla monumentale attività di documentazione e illustrazione della morfologia degli alberi portata avanti da Cesare Leonardi e Franca Stagi, qui condensata in 24 delle 374 tavole sui grandi fusti raccolte nell’omonimo volume pubblicato nel 1982. Un invito a guardare al nostro passato meno noto e a scommettere sull’analisi del dettaglio come lente per filtrare la dispersione che affligge il nostro tempo.

Pubblicato su Artribune.com il 18 settembre 2018