Fare base in Rete. Le nuove frontiere del design

In linea con lo spirito dell’attualità, anche il design trova nella Rete un nuovo, e fertile, terreno di lavoro. Gli esempi su questo fronte si moltiplicano, specie a livello internazionale.

Dove è di casa la nuova ricerca sul design? Per una nuova generazione di addetti ai lavori, e forse anche di pubblico, musei e gallerie sembrano aver perso quel ruolo scontato di bussola e catalizzatore che fino a poco tempo fa nessuno poteva mettere in discussione. Sarà, probabilmente, una questione di Weltanschauung: in tempi di Snapchat, flash mob e pop-up store, la celebrazione dell’effimero appare più intrigante di una monumentalità meno flessibile e reattiva. Sarà, forse, il predominio dell’orizzontalità sulla verticalità: piuttosto che declinare un tema in profondità, meglio prendersi il gusto di esplorare sovrapposizioni e cortocircuiti tra discipline affini. C’entrerà poi qualcosa, infine, anche la questione gestionale: il dover abbattere costi fissi elevati, l’impossibilità – anche qui forse generazionale – di pianificare sul lungo periodo, il desiderio di raggiungere un pubblico realmente eterogeneo e internazionale, essendosi trasformato, quello locale, in un sinonimo un filo fuori moda di volenterosa ma pur sempre piccola provincia.

L’ESEMPIO DI DEPOT BASEL
Ma in quale porto traghettare questo incontenibile desiderio di connessioni e comunità, di trasversalità e innovazione? Banale a dirlo, ma la risposta è la Rete. Per spiegare connotati e potenzialità di questa traslazione, un caso emblematico arriva dalla Svizzera e riguarda la recente mutazione di Depot Basel in OnlineDepot.ch. Nato nel 2011 negli spazi di un ex silos a Basilea (ecco spiegato il nome), questo centro espositivo fondato da Laura Pregger e Matylda Krzykowski, grazie al supporto di Habitat Foundation ha accolto negli anni mostre e approfondimenti – necessariamente temporanei, hanno sempre tenuto a precisare i curatori – dedicati a progetti votati alla sperimentazione e alla ridefinizione critica della disciplina. Stando alle parole dei suoi fondatori, Depot Basel ha rappresentato “un luogo dove una varietà di prospettive, idee e approcci potessero confluire e dar vita a nuove prospettive”. Un centro di ricerca, continuano ancora nell’unica pagina Internet che ancora corrisponde all’omonimo dominio, che non ha mai auspicato di potersi consolidare in una collezione permanente da stoccare in un archivio fisico, quanto in un inventario fatto di “formati, tecniche, strategie, strumenti, esperienze, competenze e relazioni”.
Con gli anni, l’intuizione che la leggerezza fosse in fondo uno strumento più abilitante della pesantezza e che fosse possibile – perché no? – spingere questa immaterialità agli estremi, ha portato Depot Basel a mutare ulteriormente pelle in OnlineDepot.ch, una piattaforma web dove, oltre ai format espositivi elaborati negli anni, sono confluiti i profili della comunità di designer e ricercatori di riferimento, un lessico ragionato sulla fenomenologia più recente del design e una pagina di servizi dove poter prendere visione, e in caso collaborare, con tutte le figure e le competenze messe a disposizione di fondazioni e aziende. La grande mole di informazioni presente sul sito va ben oltre la piccola scheda tecnica per evento, favorendo non solo un’opportunità di consultazione esaustiva, ma anche lo sviluppo di nuove intuizioni nonché di una certa idea di design sempre più attenta alla dimensione processuale e alla ibridazione tra i generi. E il silos? Alla fine di questa migrazione verso il virtuale, gli 850 mq del granaio sono stati definitivamente abbandonati: troppo ampi per non imporre una programmazione, delle tempistiche e dei vincoli da rispettare.

A proposito di studi – anche questo un luogo topico della professione, della ricerca, dell’accumulo e del piacere della tangibilità fisica degli spazi e dei suoi oggetti –, c’è anche qui chi ha preferito abbandonare la concretezza delle quattro mura per la volatilità di una base in Rete. Nato a Eindhoven come congrega di affinità elettive tra compagni di corso all’ultimo anno di università, il Fictional Collective è composto da ventisette progettisti che non solo non risiedono nella stessa città, ma non vivono neanche nello stesso continente. L’impossibilità palese di condividere un luogo fisico ha dato vita a un metodo “altro” di lavorare insieme che influenza necessariamente la pratica del design e i risultati a cui essa arriva: infiniti braingstorming su Skype e WhatsApp, ridefinizione costante dei gruppi di lavoro sulla base delle caratteristiche dei progetti in corso, e la predilezione per installazioni e ricerche dal substrato fortemente narrativo. L’eterogeneità delle provenienze biografiche e l’essere radicati in territori molto diversi, allora, si trasforma in una ricchezza di spunti dal potenziale teoricamente infinito.
E in Italia? Esperienze parimenti strutturate stentano ancora a rivendicare la scelta della migrazione in Rete come un punto di forza. Sebbene Internet, ancora una volta, si riveli un’infrastruttura decisamente abbordabile per realizzarvi ciò che sarebbe stato molto più complicato implementare “nella realtà”. L’hanno capito il MuDeTo.it (Museo del Design Toscano) e il MuDeFri.it (Museo di Design del Friuli Venezia Giulia): in queste due regioni italiane, il valore e le specificità delle produzioni storiche e contemporanee di designer e aziende locali hanno costruito in Rete la casa che non riuscivano a trovare presso un’istituzione. Pur senza smettere di continuare a sognare, in questo caso, una mostra e un archivio realmente fisici e tangibili.

Pubblicato su Artribune Magazine #38 e Artribune.com il 29 agosto 2017