Frontiera sintetica. La next big thing del design

Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Era un interrogativo ben arduo, uno di quelli che sono sempre stati considerati senza risposta, e tuttavia di quante cose potremmo venire a conoscenza se codardia e negligenza non ostacolassero la nostra ricerca!”. Non sono in molti, nel campo del design, a condividere la consapevolezza del giovane Victor Frankenstein. Eppure sono destinati a essere sempre più incisivi, consapevoli che il progetto del mobile – vuoi per un modello industriale sfibrato, vuoi per un manierismo di ritorno – ha smesso di rappresentare il paradigma culturale privilegiato della disciplina. Animata da un incrollabile tecno-ottimismo, questa avanguardia trasforma la biologia in uno strumento in grado di produrre materiali ecosostenibili, energie libere dal petrolio e, perché no?, un nuovo ideale di bellezza. Superando nei fatti ciò che faceva del Prometeo moderno solo una sofisticata frontiera dell’immaginazione. E accedendo così, per la prima volta nella storia, alla progettazione della vita.
Questo è quanto succede grazie agli scenari aperti dalla biologia sintetica, lo studio della manipolazione del Dna che permette di ottenere nuovi organismi modificati da utilizzare in una pluralità di settori, dal medicale ai materiali fino all’edilizia. Anche detto synthetic design, rappresenta un deciso passo avanti rispetto a quanto sviluppato in seno al già recente e innovativo dominio del biodesign. Progetti come quelli di Mathieu Lehanneur, il primo a introdurre la coltivazione di alghe e pesci in appartamento (Local River, 2008), o dei Formafantasma – celeberrimo il loro progetto Botanica (2011), votato alla sperimentazione delle bioplastiche – sono sì una prima archiviazione della chimica di sintesi, ma non mettono mano a provette e Dna per confezionare organismi sulla base delle loro possibili applicazioni.

Natsai Audrey Chieza, Voluntary Mutations | Home Cultured Skin

Nel caso del synthetic design, invece, il binomio natura/cultura viene superato grazie al ricorso alla genetica. Alexandra Daisy Ginsberg, pioniera del settore e autrice di Synthetic Aesthetics, ne parla – nel progetto The Synthetic Kingdom – come dell’innesto di un nuovo ramo artificiale nell’albero della vita organica: “Prendete una caratteristica di un organismo vivente, individuatela nel suo Dna e inserite l’informazione estratta in uno chassis biologico. […] La vita sintetica elaborerà informazioni, produrrà energia, eliminerà l’inquinamento, produrrà parti che si autoriparano, ucciderà gli agenti patogeni e farà anche i lavori di casa”. Se vi sembra poco…
Lo scorso 4 dicembre si è tenuta a New York la prima edizione di Biofabricate, summit internazionale dedicato agli scenari applicativi del design sintetico e vera cartina di tornasole dello stato dell’arte del settore. La società americana Ginko Bioworks sta progettando il primo estratto di rosa biomodificato in laboratorio, aprendo il campo a una miriade di nuove essenze a disposizione dei profumieri. bioMason ha realizzato un mattone ricavato da microorganismi modificati che “cresce” invece di essere bruciato al forno, con un risparmio potenziale di migliaia di tonnellate di CO2. Maurizio Montalti studia con Mycelium Design nuove tipologie di funghi miceli con proprietà strutturali e decorative. E c’è chi, come la design futurist Natsai Audrey Chieza, guarda alla biologia come a uno scenario profetico, descrivendo, ad esempio nel progetto Posthumanity, un mondo dove le subculture di domani si distingueranno per protesi e accessori coltivati in vitro.

Natsai Audrey Chieza, Parasitic Prosthesis | Genetic Symbiosis

Le opportunità, però, non sembrano riservate a una cerchia ristretta di designer e scienziati confinati in ambito universitario, ma diventano appannaggio di una cittadinanza più ampia. Pioniera del progetto è Ellen Jorgensen, biologa di Brooklyn che ha abbandonato la carriera accademica per fondare Genspace, il primo fablab dedicato al biohacking. Tutti, a Genspace, possono partecipare alle attività del laboratorio, per divertirsi e anche per acquisire una nuova consapevolezza politica legata alla scienza, trasformata così nella nuova frontiera dell’attivismo DIY. Tra le applicazioni sviluppate, colpisce il progetto Veevo di Sylvia Saborio, che con batteri geneticamente modificati ha messo a punto un nuovo processo di stampa su tessuto. Confermando – in questo oceano di innovazione seducente per alcuni, distopico per altri – quello che il design continuerà a fare a dispetto di qualsivoglia implementazione tecnologica: sviluppare soluzioni utili, esteticamente consapevoli, innestate con un potenziale narrativo in costante evoluzione.

Pubblicato su Artribune Magazine #23 e su Artribune.com il 14 aprile 2015