Il pretesto olandese

Un Salone in Dutch. Non sono stati disattesi i pronostici sul chiacchierato “who’s who” del momento. Con quello, scontato, sulla ritrovata egemonia del cool factor “arancione”…

Il design olandese come un “false flat”, un falso piano: fu questa l’espressione con cui, nel 2004, il lavoro di artisti, creativi e progettisti dei Paesi Bassi venne etichettato in occasione dell’uscita del definitivo volume di Aaron Betsky e Adam Eeuwens sul successo del Dutch Design. La strada della celebrità, secondo i due, aveva dunque origini lontane, nella metafora di un paese che strappa la terra al mare e pianifica levigando, con grande anticipo storico rispetto al resto del mondo, il proprio paesaggio e la propria maniera di vivere. Un genius loci audace e pragmatico come ragione di una notorietà tanto recente e fulminea? Visione romantica e persino folkloristica. Distante, ma non troppo? Dal punto di vista del caposcuola Gijs Bakker, il quale ha recentemente dichiarato, proprio in quel magazine The Dotsdistribuito con tanta prodigalità nei giorni del Salone del Mobile a Milano, di ritrovare la chiave di volta del progetto olandese in un “conceptual design in context”, un progressivo affinamento del concetto, libero da preclusioni o pregiudizi su limiti o confini disciplinari, in rapporto a un contesto dato.
Sarà, ma a più di quindici anni dalla nascita di Droog Design e di quel design “secco” che sì, ha realmente rappresentato uno spartiacque nel rinnovamento della scena olandese, il lavoro degli epigoni sembra aver abbandonato il rigore concettuale della prima ora per lasciare il passo a un tono più spensierato, più volentieri incline al gusto di una trovata legittima, divertente, a tratti pretestuosa.

Analog Digital Clock di Maarten Baas

Sfumature, queste, non difficili da riconoscere nei lavori presentati all’ultimo Salone. Come nella mostra The Questions, allestita dalla Design Academy di Eindhoven nel nuovo epicentro, quasi tutto olandese, di Zona Ventura: uno showcase in cui ogni progetto di laurea, secondo un autentico presupposto di problem solving, è stato sviluppato come risposta a una domanda sui temi della sostenibilità e della memoria. Interessanti anche le altre collettive del distretto, tra cui Made in Arnhem e Autofficina. Meno esaltanti, invece, le proposte di Tuttobene e Gronicles, come anche la prima collettiva Droog Design dopo l’allontanamento di Bakker: un ritorno, dal punto di vista formale, al gusto secco delle origini, meno convincente nell’urgenza di dover riabbracciare, ancora una volta, la pratica del riuso.
Sempre in Zona Ventura, poi, non poteva mancare la versione più esclusiva del design “limited edition” olandese, come quello di Kiki van Eijk o Maarten Baas. Il quale, reduce dal conferimento del titolo di Designer of the Future alla scorsa edizione di Design Miami, si è divertito a prendersi il lusso di un anno sabbatico, rotto soltanto dal lancio della sua nuova app per iPhone, Analog Digital Clock. Intorno, una costellazione di produzioni da bricoleur in salsa Arts & Craft, votate al décor, alla lavorazione artigianale e alla piccola scala del progetto, quella del complemento d’arredo.

Una presenza variegata, dunque, quella degli olandesi al Salone. Eccezionale nel comunicare la propria identità, giocando intorno ai propri stereotipi e ai personaggi già affermati. Ancora più efficace, però, nel fare quadrato intorno al proprio sistema-paese – e questo è il punto – compensando la mancanza di una diffusa rete manifatturiera con un deciso sostegno istituzionale, frutto di una politica consapevole che ha investito nel design come principale vetrina di un’economia della conoscenza targata “Made in Holland”.
Eccoli spiegati anche così, allora, i prolifici olandesi: protégé di un governo che non lesina le borse di studio e i vitalizi, allontanando i designer dalla stringente – e altrove ineludibile – necessità di un confronto con la committenza. Una realtà agli antipodi rispetto al modello italiano, sempre più marcato, ancora una volta, dalla centralità di quella “media industria” cantata da Andrea Branzi, ma anche dalla sostanziale assenza di una struttura istituzionale in grado di sostenere e offrire visibilità ai giovani talenti emergenti.

Pubblicato su Exibart n. 66 e su Exibart.com il 17 luglio 2010